«Certo, definire i contorni dell’abuso d’ufficio in maniera più precisa è indispensabile ed è un bene che il legislatore se ne stia occupando. Ma se non si riducono e semplificano le centinaia di migliaia di norme attualmente in vigore, i dirigenti pubblici continueranno a incappare in quel reato con tutte le conseguenze negative che ne derivano in termini di paralisi dell’attività amministrativa e della giustizia». Pompeo Savarino non ha dubbi. Secondo il presidente dell’Associazione Giovani Classi Dirigenti delle Pubbliche Amministrazioni, l’abuso d’ufficio è una sorta di norma-capestro i cui effetti devastanti possono essere arginati solo aiutando i funzionari statali a farsi strada nella giungla delle leggi italiane.

Presidente, i dati dell’Anci ci dicono che in dieci anni, in Campania, su 7mila indagini aperte per abuso d’ufficio solo un centinaio è arrivato a sentenza. Come se lo spiega?
«Il reato non ha confini precisi e, sul punto, la giurisprudenza è ondivaga. E questo è un grosso problema per i dirigenti pubblici: davanti all’incertezza normativa anche le persone perbene, che rappresentano la stragrande maggioranza, tendono a non firmare atti e provvedimenti nel timore di finire sotto inchiesta prima e sotto processo poi».

Quindi basta definire in modo più preciso i contorni dell’abuso d’ufficio?
«No. Il vero problema è l’ipertrofia legislativa italiana. Ci sono troppe norme, spesso poco chiare. Si tende a regolare qualsiasi aspetto della vita quotidiana, senza contare i tanti decreti di epoca fascista ancora in vigore. A questo si aggiungono gli indirizzi dottrinali e giurisprudenziali, spesso in contrasto tra loro. È evidente che, davanti al caos, il dirigente pubblico è chiamato a scegliere tra un’interpretazione e l’altra di diverse norme. E in quel momento rischia di firmare un atto per il quale gli verrà successivamente contestato l’abuso d’ufficio».

Quali conseguenze ha questa confusione?
«Il rinvio a giudizio fa scattare il piano anticorruzione: il dirigente o il funzionario viene rimosso dalla posizione nella quale avrebbe commesso il reato e destinato ad altre funzioni. In un Ministero, l’assenza di un funzionario viene assorbita più facilmente perché il personale è più numeroso. Nei Comuni dove in servizio ci sono pochi dirigenti, invece, la rotazione del personale è più difficile perché ciascuno ha una preparazione specifica. Così si bloccano migliaia di procedimenti amministrativi».

Ha una stima del rallentamento dell’azione amministrativa legato a un caso simile?
«No, ma le conseguenze sono senz’altro devastanti. Pensiamo a un appalto in un Comune: se scatta il rinvio a giudizio per il responsabile del procedimento, l’iter è sospeso con la conseguenza che l’impresa aggiudicataria può reclamare un indennizzo e il progetto rischia di arenarsi definitivamente. E spesso trascorrono sette anni prima che un dirigente o un funzionario venga assolto. Nel frattempo, però, la sua reputazione è distrutta e l’attività amministrativa bloccata».

Questa situazione incide in maniera diversa nelle varie aree del Paese?
«A soffrire di più sono i Comuni piccoli, cioè al di sotto dei 5mila abitanti, che rappresentano l’80% del totale. Lì l’assenza o la rotazione dei dirigenti comporta problemi più gravi per i motivi che ho appena spiegato. E non c’è dubbio che al Sud l’incidenza della paralisi amministrativa sia più deleteria perché si somma a una serie di criticità economiche preesistenti».

Come se ne esce?
«Negli ultimi decenni la lotta alla burocrazia è stata il paravento dietro il quale si è nascosta una classe politica incapace di affrontare il vero nodo della questione, cioè l’ipertrofia normativa. Tutte le forze parlamentari dovrebbero sedersi intorno a un tavolo con giuristi e rappresentanti dei dirigenti pubblici per eliminare le leggi inutili, chiarire quelle oscure e razionalizzare la normativa materia per materia. Bisogna lavorare su questo per almeno due o tre anni. È l’unico modo per evitare che l’attività delle pubbliche amministrazioni sia paralizzata e che le vite di tanti funzionari e dirigenti siano devastate dalle inchieste della magistratura».

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.