Il caso
Agenda rossa di Borsellino, il verbale della perquisizione potrebbe confluire nel dibattimento
La scomparsa si intreccia con il processo d’appello nei confronti dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo

La scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino si intreccia con il processo d’appello, attualmente in corso a Caltanissetta, nei confronti dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sul “depistaggio” compiuto all’epoca nelle indagini sugli autori dell’omicidio del magistrato. Il verbale della perquisizione effettuata nelle scorse settimane a casa della moglie e dalla figlia, fra Roma e Verona, dell’ex capo della squadra mobile della Questura di Palermo, Arnaldo La Barbera, morto nel 2002 e primo sospettato di aver pianificato il depistaggio, potrebbe confluire nel dibattimento. Prossime udienze a metà dicembre. La perquisizione era stata disposta dalla procura nissena dopo che una persona molto amica della famiglia La Barbera aveva dichiarato di avere saputo che l’agenda rossa dove il magistrato annotava tutti i dati più significativi delle sue attività sarebbe stata in possesso prima di La Barbera e poi della sua famiglia.
Il testimone, la cui dichiarazione è arrivata a 31 anni dalla strage di via D’Amelio, ha spiegato di aver parlato solo adesso sull’onda emotiva sollevata dalle notizie sugli sviluppi delle indagini sulla morte di Borsellino, precisando però di non avere mai visto l’agenda rossa che, durante le perquisizioni, non è stata trovata. La sentenza di primo grado che ha assolto anche per prescrizione, essendo caduta l’aggravante mafiosa Bo, Mattei e Ribaudo, da tempo in pensione, aveva evidenziato che il depistaggio ebbe inizio lo stesso giorno della strage, vale a dire il 19 luglio 1992, e quindi organizzato ancor prima della strage medesima.
Le prove del depistaggio
Nelle circa 1500 pagine della sentenza di assoluzione che la procura generale di Caltanissetta, pg Gaetano Bono e Antonino Patti, proverà a ribaltare, si legge infatti che “un elemento insuperabile che certifica al di là di ogni dubbio ragionevole come la Polizia di Stato che conduceva le indagini – ove non eterodiretta – abbia agito su impulso di una fonte confidenziale che non si è mai individuata e/o rivelata, nemmeno all’esito dell’odierno procedimento”. Una delle prove che il depistaggio venne organizzato già prima della morte di Borsellino e degli agenti della scorta, è la Fiat 126 imbottita di tritolo ed utilizzata per la strage. Se il blocco motore dell’auto venne rinvenuto solo il giorno dopo, il 20 luglio dopo le ore 13, come fece la Polizia a comunicare all’Ansa il giorno stesso della strage che l’autobomba esplosa poteva identificarsi proprio in una utilitaria Fiat? Come fece il tecnico della scientifica Martino Farneti, già all’esito del sopralluogo effettuato nell’immediatezza del fatto, a “sostenere che l’ordigno era piazzato all’interno del cofano anteriore di una autovettura individuata per una Fiat 126 di colore rosso”? Come ha potuto, sempre la Polizia, insospettirsi se alle ore 8 e 30 circa del 20 luglio il meccanico Giuseppe Orofino aveva denunciato la scomparsa delle targhe di una Fiat 126, furto che “poteva essere avvenuto il giorno prima o anche il sabato precedente (come effettivamente avvenuto in base al racconto di Gaspare Spatuzza)”? “E si badi – prosegue la sentenza – come ulteriore elemento che assevera la tesi qui sostenuta è dato dalla scarsamente attendibile deposizione del teste Domanico (Massimiliano, agente della Polizia, ndr) che non ha indicato, né nel corso della sua deposizione nel 1994 (processo di primo grado del Borsellino Uno) né nel corso dell’odierno procedimento, il soggetto o i soggetti da cui aveva appreso che l’autobomba potesse essere una 126”.
Pertanto, nessuna pregressa indagine e nessuna logica, se non quella di una precedente programmazione del depistaggio che poi si attuò, poteva sorreggere – la mattina del 20 luglio – il sospetto di una simulazione di un furto di targhe dietro la denuncia di Orofino e men che meno l’iniziativa di un sopralluogo da parte della polizia scientifica presso il suo garage, dal momento che furono rinvenute in via D’Amelio solo il successivo 22 luglio. Orofino, accusato quindi di aver custodito la Fiat 126 utilizzata come autobomba, venne arrestato a seguito della accusa del falso pentito Vincenzo Scarantino e condannato per aver fornito le targhe false. Dopo la sua morte, gli eredi riuscirono ad ottenere dalla Corte di appello di Palermo il risarcimento di 1,5milioni di euro per i 17 anni di ingiusta detenzione.
Il clima in procura
Senza alcun dubbio il depistaggio per l’omicidio Borsellino iniziò allora quando il magistrato era ancora vivo. La sentenza fa anche riferimento alle condotte di diversi magistrati, sia a quelli che hanno condotto l’inchiesta e sia a quelli che lavoravano alla Procura di Palermo con Borsellino. La tesi sostenuta dagli ex pm Carmelo Petralia e Annamaria Palma, poi assolti dall’accusa di concorso in calunnia aggravata, che gli “inquirenti si siano mossi per andare a sentire Scarantino in virtù della (avvenuta) ritrattazione televisiva è smentita dai fatti”, poiché gli avvisi dell’interrogatorio furono notificati il giorno prima che Scarantino manifestasse l’intenzione di ritrattare. Le vere ragioni di quegli interrogatori, che determinarono la ritrattazione della ritrattazione e quindi la conferma delle false accuse, i magistrati non li hanno mai esplicitati. Riguardo al clima che si respirava alla Procura di Palermo dopo l’omicidio di Giovanni Falcone e pochi giorni prima dell’omicidio di Borsellino la sentenza riporta anche le dichiarazioni dell’ex pm Antonio Ingroia il quale aveva riferito dello stato d’animo di Borsellino a margine dell’incontro del 14 luglio 1992 con tutti i magistrati a proposito dell’ indagine Mafia e appalti condotta dal Ros dell’Arma dei carabinieri e che poi sarà causa dell’accelerazione del mortale attentato nei suoi confronti.
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