Napoli è affranta, nonostante la primavera alle porte. Avvilita, come il Napoli disarmante di giovedì sera. Una mestizia familiare, figlia di una crisi strutturale che si somma alla depressione pandemica globale. Una città ferita a morte. Sessant’anni fa, La Capria aveva tratteggiato l’incapacità del milieu napoletano di cogliere l’occasione del dopoguerra per riscattarsi dal provincialismo e dalla cialtroneria, adagiandosi in una decadenza sonnacchiosa e invincibile.

Una città vittima e carnefice della sua classe dirigente “viluppo di boria, di sconcezza, di borbonica ingerenza”. Napoli è molto altro, ma quel provincialismo non ci ha mai abbandonato se a distanza di anni ci tocca subire – si tratti di Caravaggio o dei murales ai quartieri – le stesse polemiche già esibite per i funerali di Mario Merola e per Gomorra. Un conflitto falso e falsificato tra la città alta, sempre ricca e indignata, e il popolo basso difeso da tribuni della plebe, di buona famiglia anch’essi.

Napoli è “mille culure” che però non cancellano la lunga decadenza di una città in fase crepuscolare. La cronaca supera sempre la fantasia e non c’è bisogno del commissario Ricciardi per scoprire gli assassini della Galleria Vittoria, i cui sopralluoghi ripartiranno da zero, dopo cinque mesi, perché il progetto del Comune era sbagliato; o quelli della funicolare di Chiaia, con la manutenzione in proroga dal 2017 e senza revisione generale da 24 anni; o quelli del debito comunale, che supera i due miliardi e lievita senza sosta verso il dissesto. De Magistris ha pensato bene di anticipare la villeggiatura in Calabria, ma le responsabilità della sua amministrazione sono sotto gli occhi di tutti, narcotizzate dal lockdown e dall’incertezza sulla data delle elezioni.

Ma la politica e l’informazione preferiscono parlare d’altro, di giovani, appelli, società civile, insomma di se stessi e basta, come i personaggi di Citarsi Addosso. Prendiamo Enea, l’ultimo paradigma improvvisato del nuovo che avanza. Un’evocazione senza senso, che propone come modello chi scappa dalla propria città in fiamme dopo averla consegnata al nemico; una confessione freudiana di inadeguatezza che meriterebbe una seduta di psicoanalisi, più che il Consiglio comunale. In ogni caso non è di Enea che si discute in città, né dei suoi epigoni. I napoletani danno per scontato tanto il malgoverno della città quanto la mediocrità della politica e preferiscono parlare di pallone.
Churchill diceva che gli italiani giocano a calcio come se fosse una guerra e viceversa.

Pure i napoletani, ed è un peccato, perché se mettessimo nella vita pubblica la stessa passione spesa nel commentare le disavventure della squadra, saremmo i campioni della democrazia diretta, altro che Rousseau. Ma la faccia “a peste” di Gattuso innervosisce più dell’autobus che non passa e il silente ridimensionamento avviato da De Laurentiis scalda gli animi più del disastro cittadino. Il Napoli rimane il vero termometro della città, antidepressivo o veleno a seconda di come tira il vento in mezzo al campo. E, mai come oggi, il tempo segna brutto. Anzi, bruttissimo.