La pandemia si è abbattuta come un tornado sui distretti industriali italiani, una vera tempesta perfetta alla quale si auspica che il governo Draghi possa porre rimedio sfruttando il Recovery Fund. Se scompaiono i distretti, infatti, muore la piccola e media impresa del made in Italy, e tracolla il sistema economico-produttivo nazionale. Può essere utile, quindi, analizzare gli specifici fattori della crisi dei distretti che sono stati indotti in primis dal crollo della domanda, prendendo per esempio il modello marchigiano, sia esso calzaturiero o dell’abbigliamento. Fattori che sono comuni a tutti gli altri distretti industriali nel Nord, nel Centro e nel Sud.

Partendo da una premessa: la marcata interdipendenza tra gli attori distrettuali, cioè quella che era un punto di forza, si è ora trasformato nel maggior punto di debolezza del sistema distrettuale. «Il distretto è come un grappolo d’uva, formato da tanti acini, che soltanto se sapientemente portati a maturazione e, poi, correttamente trattati, possono dar vita ad un buon vino». Vale la pena analizzare la crisi che ha investito l’intera filiera della trasformazione, in ambito distrettuale, attraverso i molteplici attori, le diverse fasi e i passaggi, sia che riguardi il vino, la moda o la calzatura.
Varie bombe sono esplose, nel terribile 2020, sull’economia del distretto, in una devastante successione, come negli attentati terroristici che eliminano oltre alle prime vittime, anche i soccorritori e, infine, gli stessi investigatori.

La prima? La cassa integrazione non è arrivata e gli imprenditori hanno dovuto anticiparla ai dipendenti, per affetto verso di loro e per interesse, prosciugando così la già scarsa liquidità che serviva per comprare tessuti, accessori e materiali nuovi da sperimentare, nonché per pagare i disegnatori e i modellisti. Così l’ingranaggio ha subito un primo inceppamento.

Ed eccoci al secondo fattore di crisi: le migliori risorse umane, chiamate a lavorare solo qualche giornata, se hanno trovato un’occupazione migliore, un’alternativa, che garantiva la mensilità, se ne sono andate, privando le piccole e medie imprese di mani pregevoli, di quell’esperienza pluriennale, impossibile da rimpiazzare, anche nell’eventuale ripresa futura. In tal modo, l’azienda si è impoverita ulteriormente, nel fattore umano e nelle disponibilità finanziarie, dovendo far fronte anche ai costi necessari alla conclusione dei rapporti di lavoro.

La terza causa della crisi è il Covid: la malattia è arrivata e ha colpito al cuore il fattore umano dell’azienda, creando ansia e timore nel futuro. Quando questo è avvenuto, in aziende con quattro o cinque dipendenti, ha provocato un altro choc, un altro arresto all’ingranaggio. Per cui, anche i progetti innovativi nel mondo della moda, hanno subito un’alterazione nei ritmi di produzione: il laboratorio A lavora il lunedì, B soltanto il giovedì e C solo il venerdì pomeriggio. In tal modo i tempi, che erano di tre settimane per produrre un capo finito, sono diventati cinque, sei o sette, con problemi di controllo della qualità e di costi maggiorati, perché non si riesce più ad efficientare la logistica, i volumi e gli spostamenti.

La quarta bomba esplosa nel 2020 è l’arretratezza digitale dei fondatori di queste microimprese, alcuni dei quali faticano addirittura anche ad aprire una mail. Ci sono situazioni in cui, nel migliore dei casi, passava la nipote del titolare, un giorno sì e uno no, per leggere la posta elettronica. Ma se si ammalava o doveva stare a casa a guardare i bambini, che non potevano andare a scuola, la mail rimaneva lì, inutilizzata, magari con un messaggio importante, magari per una modifica a un progetto, magari per un ordine, magari per un’informazione utile.

La quinta bomba: i buyer hanno approfittato della crisi. Il meccanismo è noto. Le grandi firme schiacciano i terzisti: quel pantalone che sanno di dover pagare 30 euro, lo chiedono per 25, perché nella casa madre qualcuno ha scritto questa previsione nel business plan. Di conseguenza, i rappresentanti sul territorio spingono per chiudere a 23, per fare bella figura con l’azienda. Il piccolo imprenditore, con l’acqua alla gola, è costretto a subire. Uno spregevole taglieggiamento, alla faccia dei codici etici europei.

Infine, la sesta bomba. Quest’ultima costituisce il pericolo principale per il futuro dei distretti: i laboratori dei cinesi, anche clandestini, che fanno concorrenza sleale, con la guerra dei costi, finché non dovranno anche loro fare il Documento unico di regolarità contributiva. Ma quando saranno obbligati a farlo?

Questa è la radiografia drammatica della crisi che ha investito le piccole e medie imprese e i distretti industriali dell’Italia, a cominciare da quelli della Campania. Qualche esempio? Nella regione le piccole e medie imprese attive nei settori dell’abbigliamento, delle calzature e delle borse sono concentrate nei distretti di Solofra e Grumo Nevano-Aversa oltre che di Sant’Agata dei Goti-Casapulla, mentre quelle operanti nel comparto tessile si trovano a San Giuseppe Vesuviano e San Marco dei Cavoti. Davanti a questo stato di cose il governo Draghi è chiamato a varare misure per salvare e rilanciare questo modello produttivo italiano, un gioiello di organizzazione produttiva, creatività ed efficienza.