Dalla crisi energetica degli anni Settanta alla grande ristrutturazione aziendale a cavallo degli anni Novanta, fino alla crisi finanziaria del 2008, la triste constatazione della maggiore esposizione delle regioni meridionali italiane agli effetti negativi di ogni arretramento del sistema-Paese nella crescita economica, trova piena conferma nei differenziali di pil tra le due macroaree italiane, come emerge dal rapporto Svimez 2020 sull’economia e la società del Mezzogiorno, che fotografa innanzitutto come il lockdown dovuto alla pandemia mondiale non abbia livellato le differenze tra i territori italiani, aggravandone invece il divario economico e i processi di ingiustizia sociale da tempo in atto.

Mancano dunque all’appello, tempestivamente, iniziative efficaci per superare le perduranti fragilità dell’economia meridionale anche di fronte alla constatazione che la troppo modesta velocità di crescita del pil nazionale complessivo, ne favorirebbe un significativo incremento proprio innalzando il livello di sviluppo del Mezzogiorno, in modo tale da conseguire un significativo vantaggio dell’intero sistema-Paese e della sua competitività rispetto alle locomotive d’Europa. In questa situazione, anche se i dati sulla caduta del pil meridionale in talune regioni appaiono persino meno drammatiche che nel resto del Paese, ciò che più merita attenzione è la prospettiva futura.

Nel senso che, mentre le economie delle regioni più forti e maggiormente integrate nella prospettiva globale si rivelano ben più rapide nel riacquistare competitività e recuperare un apprezzabile andamento positivo degli indicatori di crescita, ciò nel Mezzogiorno non si intravede. Proprio per la debolezza del tessuto produttivo regionale e, di conseguenza, per la precarietà del relativo mercato del lavoro, soprattutto nelle componenti più esposte e meno integrate nei processi di crescita e inclusione, come donne e giovani.

Del resto, di fronte a una struttura ampiamente legata a fattori di precarietà strutturale (lavoro nero, occasionale, informale) è evidente come la crisi provocata dal Covid non abbia potuto usufruire affatto nemmeno di quegli indispensabili ammortizzatori che altrove, nei sistemi del lavoro formali, attraverso il blocco dei licenziamenti e l’ampliamento a dismisura della cassa integrazione, ha consentito di limitare, sia pure temporaneamente e nella loro inadeguatezza strutturale rispetto all’ampiezza dei problemi da affrontare, l’improcrastinabile emorragia di occupazione.

Ma poiché ben poco appare utile “piangere sul bagnato”, ciò che sembra il caso di discutere è la ricerca di un pur vago lampo di nuova luce che, con la legge di bilancio in discussione, ma ancor più con gli investimenti indotti dal Recovery Found, nel breve periodo ci si può attendere implementando una politica per il lavoro, innanzi tutto idonea a favorirne la ripresa nel Mezzogiorno. Inevitabile condizione per raggiungere tale obiettivo è che si intervenga con energia nel riammodernamento infrastrutturale, attraverso reti di trasporto adeguate a riposizionare il Sud nel cuore dell’Europa (ferrovie, strade, porti, interporti, logistica), con massicci investimenti pubblici e l’inevitabile coinvolgimento dei privati, scevro da ideologismi e preclusioni culturali, nonchè dell’attrazione di capitali internazionali, tuttora frenati da una macchina burocratica lenta e inefficiente, da lentezze giudiziarie, oltre che dall’atavica piaga della criminalità (da estirpare) e,
più recentemente, da un utilizzo sovradimensionato del lavoro a distanza (da rivedere e ripensare in una chiave di utilizzo moderno ed efficace piuttosto che come pretesto per rallentare l’efficienza dei servizi pubblici).

Ma anche a condizione di un ben più attento ed efficace intervento sulla formazione del capitale umano. Prima d’altro, abbattendo drasticamente il tasso d’abbandono scolastico nel Mezzogiorno e favorendo con ogni energia un’efficace interazione scuola-lavoro, capace di evitare la piaga dell’emigrazione di forza lavoro qualificata in rotta, non solo verso il centro-nord, bensì, ai livelli più elevati di formazione, con destinazioni estere. Non sarà sufficiente una legge di bilancio, forse neppure un piano pluriennale d’investimenti, se non si saprà rinunciare alla rincorsa del consenso elettorale attraverso improduttive forme di elargizione assistenziale piuttosto che a implementare una pluralità di interventi in grado di dare ossigeno al mercato del lavoro, intervenendo sulle aree di crisi e sui fattori di sottosviluppo: lavoro delle donne, accesso dei giovani.

Ciò che appare indispensabile per ricostruire un mercato del lavoro virtuoso nel Mezzogiorno, oltre investimenti, imprenditoria sociale, intraprendenza individuale, è un drastico mutamento di mentalità e una capacità di visione prospettica dinamica. In altri termini, una classe dirigente consapevole della necessità di adottare misure concrete e iniziative durature irrobustendo il tessuto produttivo con interventi in grado di favorire formazione, innovazione e ricerca, piuttosto che in “ristori” finanziari approssimativi, oltre che di breve durata, che non sono in grado di attrarre sviluppo e invertire il trend sempre più negativo che avvolge le aree storicamente più indietro del Paese, ove però si annidano risorse ed energie di inestimabile valore e altrimenti destinate ad arricchire ulteriormente le aree più attive del Paese.