Le prospettive del Mezzogiorno
Il polo Agritech non basterà, al Mezzogiorno servono infrastrutture
Il rapporto Svimez 2020 sull’economia e società del Mezzogiorno, presentato a Roma nelle singolari circostanze dovute alla emergenza sanitaria, rivela gli effetti drammatici che lo shock esogeno pandemico ha provocato al tessuto sociale e produttivo del Mezzogiorno, acuendo gli elementi di crisi strutturali e vanificando inevitabilmente il timido recupero seguito alla grande crisi 2008-2013. Il dato in prospettiva risulta ancora più allarmante se si colloca nel contesto nazionale, in quanto la stagnazione indotta dal lockdown ha irrimediabilmente indebolito anche l’economia del Centro-Nord che già prima della crisi sanitaria rivelava elementi critici. Infatti l’economia italiana tra il 2015 e il 2019 ha registrato una crescita cumulata del pil dimezzata rispetto alla media dell’Unione Europea (+4,6 contro +9,3%), lasciando sul terreno ancora 4 punti di pil da recuperare rispetto al 2008, anno di avvio della Grande Recessione.
Giustamente il rapporto Svimez sottolinea l’esistenza di un duplice divario: quello del Centro-Nord rispetto alla media europea e il tradizionale gap nazionale tra Nord e Mezzogiorno. Nel 2019 il divario Nord-Sud è significativamente fissato in una cifra: il prodotto lordo per abitante nel Mezzogiorno è pari al 55,1% del corrispettiva dato del Centro-Nord; nel 2007, prima della Grande Recessione lo stesso dato si attestava al 57% . L’arretramento in questi anni non è stato solo in termini di produzione e quindi di reddito distribuito, ma ancora più grave è il calo demografico: dal 2000 la popolazione meridionale è diminuita di 777,2 mila unità (al netto degli stranieri) come effetto del calo delle nascite e della ripresa dei flussi migratori che hanno riguardato prevalentemente giovani con livelli di istruzione medio-alti. Dato che irrimediabilmente inserisce il Mezzogiorno in una prospettiva di decadenza sociale ed economica.
I segnali di ripresa in termini di produzione interna e di esportazioni, che pure c’erano stati tra il 2015 e il 2018, sono stati marginali e assolutamente insufficienti per invertire il dato strutturale. A complicare il quadro, oltre alla pandemia, c’è la questione del federalismo fiscale, che riproposta nel 2018 dal governo gialloverde, si è ripresentata in queste settimane nella prospettiva della destinazione dei fondi europei previsti dal programma Next Generation Eu. Una linea che sta emergendo è quella di destinare la maggior parte dei fondi al rafforzamento dei centri produttivi più forti, ovviamente concentrati in massima parte al Centro-Nord, nel tentativo di colmare il gap di produttività italiano rispetto alla parte più forte dell’Unione.
Una politica che riprodurrebbe le scelte compiute dopo la seconda guerra mondiale quando la maggior parte delle risorse stabilite dal Piano Marshall furono subito utilizzate a vantaggio delle are industriali del Nord, mentre il Sud, che pure aveva subito ingenti distruzioni, fu lasciato ai margini e condannato al suo destino di area agricola. Il modello proposto potrebbe essere quindi sempre lo stesso: lo sviluppo italiano può attivarsi solo se la locomotiva del Nord è in grado di trainare. La proposta del premier Conte di istituire a Napoli un polo Agritech per lo sviluppo di tecnologie nel settore agroalimentare, annunciata in margine alla presentazione del rapporto, sembra inverare l’antico proverbio “la montagna ha partorito il topolino”. Se questo è quello che offre il governo. di fatto il Mezzogiorno è ancora una volta escluso da un serio piano di riequilibrio territoriale.
La creazione di un distretto di Agricultural technology potrebbe avere un impatto territoriale minimo, riguardando la presenza di industrie leggere complementari allo sviluppo del settore agroalimentare. Tale progetto avrebbe un impatto notevole di fronte a un retroterra agricolo forte, ma l’agricoltura meridionale non presenta queste caratteristiche. Il rapporto evidenzia che, pur se l’industria agroalimentare ha reagito meglio di altri comparti alle crisi, la struttura produttiva è ancora debole perché polverizzata in piccole imprese (il 90% ha meno di dieci addetti) con una produttività del lavoro più bassa delle omologhe del Centro-Nord (il prodotto per occupato è stato nelle industrie alimentari, delle bevande e del tabacco del 42% in meno di quello del Centro-Nord). Del resto il contributo del Mezzogiorno alle esportazioni agricole italiane resta ancorato al 17,4% del totale nel 2017, quindi non può essere ritenuto un settore a vantaggio competitivo.
È la stessa conformazione morfologica del Mezzogiorno che lo esclude, a cui si aggiungono gli effetti della riforma agraria degli anni Cinquanta che ha impedito la creazione di aziende capitalistiche avanzate. Non si può ignorare che l’agricoltura meridionale è ancora prevalentemente fondata su processi ad alta intensità di lavoro che portano alla ribalta fenomeni di sfruttamento e di economia criminale. Ma il fatto più grave è che non si può pensare che l’economia del Mezzogiorno più che inserirsi nel quadro dello sviluppo industriale più avanzato, faccia concorrenza alle economie del Nord Africa, sia sottoposta alle volubili congiunture che guidano la domanda mondiale di prodotti agricoli e sia infine soggetta alle ampie fluttuazioni climatiche di questi ultimi anni (basti pensare alle recenti annate negative) in un contesto di deficit cronico della nostra bilancia alimentare (anche se migliorato negli ultimo tempi).
Altra è la strada da prendere, certamente più ambiziosa e che punta alla utilizzazione dei fondi per progetti diretti alla costruzione di infrastrutture per ridimensionare il cronico gap di dotazione di capitale tra Nord e Sud. La politica da seguire è ancora quella indicata da Pasquale Saraceno negli anni Cinquanta e che la Svimez persegue, rimanendo profeta inascoltato. La Svimez indica la più appropriata destinazione dei fondi europei per favorire il riequilibrio territoriale puntando su un piano strategico di sviluppo che fa leva sulle Zes (zone economiche speciali) del cosiddetto quadrilatero Napoli-Bari-Taranto-Gioia Tauro, che dovrebbe proporsi come polo di sviluppo di un sistema integrato di logistica, energie rinnovabili, rigenerazione urbana e ambientale, agroalimentare e agroindustria, governo delle acque, politica industriale, ricerca e innovazione.
La lezione di Saraceno deve essere ripresa: il modello di sviluppo deve partire dal Sud, dalla necessaria riduzione del divario di cui il Nord sarebbe il primo beneficiario. La pandemia ci ha posto di fronte ad un bivio: o il Mezzgiorno è condannato al suo destino di precarietà e assistenzialismo o diviene la punta estrema dell’Europa in un Mediterraneo che assume sempre di più il ruolo di una frontiera strategica.
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