«Può combinarne tante altre ancora». È questa la previsione che Federigo Argentieri fa dopo l’ennesimo giro di vite sui diritti civili imposto da Viktor Orbán in Ungheria. Direttore del Guarini Institute (John Cabot University, Roma), studioso delle relazioni transatlantiche, con una particolare specializzazione sulla rivoluzione d’Ungheria del 1956, Argentieri commenta la strategia del governo ungherese: «La strada di Orbán è simile a quella di Trump e di Putin, ma con priorità differenti».

Professore, l’emendamento alla Costituzione, approvato dal Parlamento di Budapest, di fatto, mette una pietra tombale sulla libertà di associazione per la comunità Lgbtq+. Perché colpire i diritti civili?
«Perché sono repressioni che non costano».

Nel senso che non gravano sulla spesa pubblica.
«È così. Inoltre, Orbán vuole modellare la società ungherese in base alle sue idee di famiglia tradizionale. Ora, è vero che, ai tempi dello smembramento del vecchio Impero, nel 1920, l’Ungheria affrontò dei problemi di identità e sopravvivenza, però arrivare a queste soluzioni è eccessivo».

L’emergenza identitaria da Putin e Trump è sentita ma non è prioritaria.
«Trump ha messo al centro l’economia. E così trascura il Medio Oriente e la guerra russo-ucraina. Che invece è di massima importanza per Putin. Orbán, con cinismo e furbizia, ha scelto la strada della repressione delle idee. Con palesi contraddizioni. Penso alla stretta sulla doppia cittadinanza. Nel 2010, proprio Orbán incoraggiava le minoranze ungheresi in Romania, Slovacchia e Ucraina a prendere il passaporto magiaro. Adesso fa retromarcia».

E pensare che il suo partito, Fidesz, non nasce come sovranista.
«Lo diventa. Appunto perché Orbán fiuta il consenso. Fidesz nasce come partito libertario, affine a radicali italiani».

Addirittura?
«Nei primi anni Novanta, József Antall, il primo Presidente del Consiglio ungherese eletto democraticamente, lancia un warning a Orbán: “Tu hai fatto in Parlamento un discorso di sinistra”, gli dice. “Attento. Lo spazio da occupare è a destra”».

Consiglio seguito abbastanza alla lettera.
«Orbán è stato il pioniere del sovranismo moderno. L’ha teorizzato, condotto nel ventunesimo secolo, dall’Ungheria, diffuso in altri Paesi in Europa. Anche in maniera pericolosa. Penso alla Romania, che però ha sofferto per l’ingerenza russa per mezzo secolo e ora non vuole filo russi tra i piedi. Uno grave affronto per Putin».

L’economia ungherese ha pagato a caro prezzo il sovranismo di Orbán. Da un modello di minima apertura prima del 1989, è passata a essere oggi il Paese più povero dell’Unione europea.
«L’Ungheria succhia tutto quello che può dall’Ue, distribuisce prebende e applica defiscalizzazioni di ogni genere. In questo modo, gli investimenti stranieri, prima intensi, grazie a una manodopera qualificata e a prezzo ragionevole, sono crollati. Anche a causa delle forti tassazioni che permettono allo Stato di incassare, per ridistribuire risorse agli elettori».

Come fa Putin.
«No la Russia è differente. In Ungheria, c’è un élite ancora ampia. Inoltre Orbán presta molta attenzione alle masse. Il suo consenso è diffuso nelle campagne e nelle città. Budapest esclusa. È una forza elettorale che lo mantiene da 15 anni e gli garantirà vita politica ancora per chissà quanto tempo».

Ecco, parliamo del futuro. L’anno prossimo ci saranno le elezioni. Previsioni?
«Se le opposizioni seguiranno le strade già percorse in passato, raglieranno l’ennesima, sonora sconfitta. È inutile candidare ex o post comunisti, oppure dissidenti. Con Péter Magyar (ex collaboratore di Orbán, Ndr) si perde in partenza. Ci scommetto 5 euro».

Cosa serve invece?
«Io mi sono fatto un identikit di un’alternativa a Orbán. Serve una candidata, una donna ci tengo a precisarlo, che non abbia alcun legame con il comunismo e Orbán con una posizione lontana dai tradimenti alla Rivoluzione del ’56, che il presidente è disposto a compiere pur di compiacere Putin».

In che senso i tradimenti?
«Il governo ungherese assumerà presto una linea negazionista ai fatti di allora. A 34 anni dal crollo del Patto di Varsavia, Orbán è capace di rinnegare la glorious revolution ungherese, secondo una visione vetero-sovietica della storia. Ovviamente falsata».

Torniamo alla candidata chi hai mente?
«Appunto una donna con forti radici familiari nella classe operaria rivoltosa del 1956. Una nipote di un dirigente del Consiglio operario, mai scesa a compromessi con il regime comunista. Una personalità capace, intelligente e buona oratrice».

E come si chiama?
«Non ne ho idea. È una figura che mi sono definito, senza nome e cognome, ma che è la perfetta antitesi di Orbán».

Andiamo in Europa. Lì l’Ungheria com’è trattata?
«Sì, sull’Ucraina la si salta semplicemente. Si ignora Orbán e si va avanti lo stesso. La coalizione dei volenti, non solo dei volenterosi, va oltre Budapest. C’è il Canada. C’è l’Australia».

Però in Consiglio Ue c’è anche il veto.
«Esatto. Che non si modifica se non emendando il Trattato di Lisbona. Operazione, a sua volta, che richiede l’unanimità dei membri del Consiglio Ue e poi la ratifica da parte dei singoli parlamenti nazionali. Un circolo vizioso, quindi, anche un solo Stato può mettere il suo granello di sabbia per bloccare l’ingranaggio».

Tanto più che Orbán non si sente isolato.
«Per nulla. Ascoltato com’è da Trump, Orbán si sente al centro della scena».