Mentre Beirut manifestava, commossa e indignata, per ricordare la strage del 4 agosto 2020, qualcuno ha sparato tre razzi contro Israele. Niente di grave, nei risultati pratici: uno non ha passato il confine, e gli altri due hanno dato fuoco ad un cespuglio. A livello simbolico, invece, l’atto è stato importante, perché voleva ricordare che la responsabilità di Israele nei fatti dell’esplosione è tutt’altro che fuori discussione, ed il rapporto fra i due paesi deve restare la priorità.

La risposta di Israele non si è fatta attendere: stanotte ci sono stati due raid aerei nella regione di Dimachqija, nel Libano del sud, che hanno provocato incendi in un paio di villaggi.
A livello internazionale, la notizia è stata data solo da Reuters.

Al contrario, la manifestazione in ricordo delle vittime dell’esplosione ha attirato molta attenzione. Mercoledì le televisioni di tutto il mondo hanno trasmesso pezzi del corteo e delle violenze che ne sono seguite, concentrandosi sulle condizioni drammatiche di un paese allo sbando, con un tasso di contagio covid al 5%, e senza fondi, senza governo, senza elettricità e, fra poco, senza acqua.

Ma l’importanza della manifestazione è nelle sue conseguenze meno apparenti. «Una delusione totale per chi sperava che fosse il breaking point della situazione esistente» mi dice Pierre Barret, attivista di lungo corso e fra i manifestanti che sono arrivati più vicini al Parlamento. Infatti, seppure commovente e partecipatissima, la manifestazione non ha portato alcun risultato pratico a livello di cambiamento istituzionale. Al contrario: proprio nel modo in cui si è manifestata la violenza, ha rivelato quanto sia disorganizzata la società civile e frammentata la resistenza all’establishment.

Da giorni si sapeva che era previsto un attacco al Parlamento. Questo atto simbolico, in passato, aveva portato a dei risultati significativi. La grande manifestazione dell’8 agosto 2020, 1 morto e 230 feriti, seguita ai tragici eventi del porto, aveva costretto il premier Diab alle dimissioni; l’anno precedente, nel 2019, le giornate d’ottobre avevano portato alla caduta del governo Hariri.

Le richieste erano chiare: formazione di un governo non corrotto e all’altezza della gestione della crisi finanziaria e dell’emergenza esplosione. Non c’è stato alcun risultato apprezzabile. Ora che il paese si trova sull’orlo del baratro, le istanze sono diventate ancora più precise: un governo di tecnici per guidare le riforme istituzionali e assicurare che sia fatta giustizia per la tragedia del 4 agosto.

È la proposta della Francia, accolta con favore e speranza dagli intellettuali libanesi e fortemente ostacolata dalla classe dirigente, sia con l’argomento della rappresentanza democratica, sia con quello della rappresentanza religiosa. In Libano, infatti, ogni carica pubblica è attribuita su base confessionale. Questa spartizione del potere, pensata un tempo per garantire la coesistenza di tutti i gruppi religiosi, oggi è responsabile tanto dell’instabilità governativa, quanto della corruzione. Nel paese esiste un cerchio magico, su base religiosa, che si autopromuove ed autotutela, e che detiene il potere a turno nonostante gli scandali che ciclicamente ne travolgono i membri. Il primo ministro dimissionario Saad Hariri – figlio del potentissimo e ricchissimo Rafiq – era lo stesso obbligato a dimettersi dalle dimostrazioni dell’ottobre 2019: è tornato in carica dopo appena due anni ed un successore.

L’attuale incaricato Nagi Mikati, l’uomo più ricco del Libano, accusato di avere malversato i fondi per il sostegno alle politiche abitative, era primo ministro quando è stato autorizzato lo stoccaggio dell’ammonio al porto e per i 4 anni successivi.

La speranza che un governo “tecnico” possa spezzare questo cerchio magico e traghettare il Libano verso un sistema di governo efficiente ha mosso la piazza. L’altro tema caldo, era quello della corruzione. Infatti, se le divisioni religiose settarizzano il paese e lo piegano a logiche quasi tribali, la corruzione e l’inefficienza sono trasversali, e si riflettono in ogni atto della vita quotidiana, dall’acqua che in certi palazzi è presente due ore al giorno e in altri sempre, agli indennizzi per i danni dell’esplosione, attribuiti con criteri imperscrutabili. Contro il malgoverno e la corruzione «l’unica è l’eliminazione fisica», mi ha detto una studentessa che, come molte coetanee, ieri portava cartelli con la scritta «verremo a prendervi con le vostre famiglie», o «avremo giustizia con la legge o con l’omicidio». Non c’è dubbio che la rabbia fosse tangibile. Per tutto il pomeriggio e la sera, le strade hanno risuonato di slogan estremamente violenti, assai apprezzati dai media che aspettavano che succedesse qualcosa di eclatante. In realtà tutti – compresi molti libanesi – se lo aspettavano. Ma non è successo.

La spettacolarizzazione che ne è stata fatta poi, non corrisponde a come sono andate le cose. Infatti, anche se il corteo è stato partecipatissimo, a volersi battere era solo qualche decina di persone, male equipaggiate e senza organizzazione. Un gruppo di studenti ha cercato di preparare delle molotov raccogliendo per strada delle bottigliette di succhi di frutta. Un gruppo di Tripoli ha provato a fare breccia nelle strade blindate forzando ferro e cemento con strumenti di fortuna: alla fine ci sono riusciti, ma il pertugio era così stretto che sono potuti entrare in poche decine.

La battaglia si è svolta con lanci di pietre e parole. Polizia ed esercito, dal canto loro, sembravano sopportare più che combattere. «Quella maschera non va bene!», ha gridato un soldato a un giornalista francese «non vedi che ci sono i lacrimogeni?». «Attenzione alle pietre!», «Attenzione che carichiamo!», gridavano i poliziotti alle mamme, indicando da dove fuggire. Ci sono stati fumogeni, lacrimogeni, proiettili di gomma, qualche carica, l’esercito in marcia all’inseguimento di qualche manifestante, e un dispiegamento di ambulanze da guerra civile. Otto i feriti lievi. Le spiegazioni che si sono date i libanesi su questo fallimento, quasi a consolarsi, sono: molti erano partiti, il covid, tutti erano stremati, non c’era un governo con cui prendersela. Probabilmente, semplicemente non era ancora il momento.

Cosa succederà ora? «Niente», mi risponde Pierre Barret, «la prova di ieri ha dimostrato che non c’è ancora un fronte interno sufficientemente forte per portare avanti delle istanze condivise: probabilmente il punto di rottura si avrà verso le elezioni».

Nel frattempo, il paese si trascinerà nell’attesa, con scoppi occasionali di violenza per far sfogare la tensione. A meno che non succeda qualcosa di imprevisto, per esempio un crescendo di tensioni con Israele.