Il latte costa 23.000 lire libanesi: questo significa, con il tasso ufficiale (1 euro per 1.500 lire), che costa 15 euro. Con il tasso della borsa nera (1 euro per 22.000 lire), circa un euro. Soprattutto, nell’autunno del 2019 costava 3.000 lire. Una piccola torta alle fragole, in una pasticceria del centro, costa 126.000 lire: cioè 84 euro con il cambio ufficiale, e circa 6 euro con il cambio della borsa nera. Esattamente un anno fa, costava 70.000 lire.

È facile capire quello che sta succedendo: non solo i prezzi sono saliti vorticosamente, ma il governo non ha alcun controllo sul tasso di cambio; quello ufficiale viene continuamente e pubblicamente disatteso, mentre quello della “borsa nera” la fa da padrone. Per chi ha valuta straniera, non cambia molto: il costo dei beni rimane sostanzialmente invariato, nonostante il mostruoso deprezzamento della valuta libanese. Ma per chi è pagato in moneta locale – come tutti i dipendenti pubblici – il costo della vita è diventato insostenibile.

Il paese sta per crollare sotto la peggiore crisi finanziaria, secondo la Banca Mondiale, degli ultimi 200 anni. A Tripoli, la seconda città del libano, c’è elettricità solo due ore al giorno. Famiglie che appartenevano al ceto medio non sanno cosa mettere in tavola. Beirut si regge a malapena perché circola capitale internazionale, ma è evidente che non potrà resistere ancora per molto: si sta cominciando a svendere il vendibile. Un appartamento che fino al 2019 veniva affittato a 600 dollari oggi ne costa 100, ma non viene più accettato il pagamento in valuta locale. È per questo che la manifestazione di oggi, in ricordo dell’esplosione che l’anno scorso distrusse un terzo della città, rischia di diventare il detonatore di violenze in tutto il paese. Sui social il passaparola fra i giovani è diventato un inno alla rivolta, e in strada lo sanno tutti: si prepara un attacco al Parlamento.

Cosa succederà poi, dipende da come verrà gestita la manifestazione. Ormai le cause della doppia esplosione, nei discorsi della gente comune, sono passati in secondo piano. Nonostante occasionali proclami sull’importanza di accertare la verità e inchiodare i colpevoli alle proprie responsabilità, se ne sa quanto l’anno scorso. Un anno di indagine non ha portato a nulla. L’opinione pubblica resta divisa fra chi aderisce alla versione ufficiale di un incidente che avrebbe provocato un piccolo incendio e fatto saltare un magazzino contenente l’ammonio, una sostanza fertilizzante utilizzabile anche per produrre esplosivi, e chi crede che si sia trattato di un attacco di Israele contro le armi nascoste da Hezbollah, la cui esplosione avrebbe poi determinato anche lo scoppio dell’ammonio.

Le posizioni rimangono dunque sempre quelle: una grave negligenza interna, contro una interferenza esterna. La situazione sembra riproporre il dramma investigativo sulla morte di Hafiq Hariri, e il clamoroso fallimento del Tribunale Speciale per il Libano che avrebbe dovuto chiarirne le responsabilità. Anche in questo caso, come nell’altro, la ricerca della verità si scontra contro la necessità di gestire una situazione complessa che non ha reali sbocchi di azione; anche in questo caso, probabilmente, la migliore strategia è attendere che il dramma si sgonfi nel ricordo. Infatti, se si è trattato di un incidente, a chi effettivamente attribuire la colpa per un carico mal stipato rimasto nel porto per sette anni? Con dei ministri succedutisi nel tempo, che verosimilmente non ne erano neanche a conoscenza? Con i direttori del porto, anche loro succedutisi, per mancato controllo? Con chi permise per primo lo scarico e lo stoccaggio, con il guardiano del magazzino che non ha denunciato la permanenza di una sostanza infiammabile, con il saldatore che ha provocato l’incendio?

Le responsabilità personali, a parte i proclami politici, sono davvero troppo labili. Se, invece, si fosse trattato di un intervento israeliano, e quindi di un atto di guerra, then what?, si aprirebbe uno scenario gravissimo e impossibile da gestire, specialmente per un paese in ginocchio che fa fatica a gestire i suoi molti fronti interni. Meglio quindi raffreddare gli animi. Oltre a ciò, pesa anche la riflessione che, se di questo si fosse trattato, le compagnie assicurative internazionali non pagherebbero il risarcimento, essendo esclusi dalle polizze i danni causati da eventi bellici. Non conviene a nessuno quindi approfondire la questione. Resta il fatto che un terzo della città è andata distrutta, ci sono stati 218 morti e 7500 feriti, 300.000 persone sono rimaste senza casa e la devastazione del porto – ancora oggi totalmente inagibile – ha necessariamente spostato l’asse commerciale verso quello di Haifa. La ricostruzione del porto, nonostante le proposte internazionali, non è ancora cominciata, né è possibile che inizi realisticamente prima che si sia installato un governo che garantisca stabilità al paese.

Questa è la richiesta che viene fatta anche dagli investitori e dai donors, in primis la Francia, poco intenzionata a sostenere un paese che non riesce ad esprimere un esecutivo credibile, ma che rifiuta un gabinetto di tecnici indipendenti per gestire la transizione, secondo la sua proposta. Il Libano è senza governo da 350 giorni, cioè da quando il 10 agosto 2020 Hassane Diab rassegnò le dimissioni dopo l’esplosione. I tentativi di Saad Hariri, nominato ad ottobre, sono rimasti infruttuosi, cosa che ha portato alla remissione anche del suo mandato lo scorso 15 luglio. È ora compito di Najib Mikati provare a risolvere questa situazione esplosiva, anche se le previsioni non sono favorevoli.

È passato un anno, quindi, senza gestire l’ emergenza, e non si vede luce in fondo al tunnel. In questa incertezza generale l’unica cosa chiara è che il paese sta affondando, nonostante gli sforzi e la resilienza dei suoi cittadini che, da soli, in pochi giorni, dopo l’esplosione, mentre piangevano ancora i loro morti, avevano però cominciato a sgomberate le strade dalle macerie e a ricostruire il ricostruibile perché la vita potesse continuare.

È questa resistenza del contesto alla spinta vitale, questo sabotaggio istituzionale all’ intraprendenza, in sostanza, che fa impazzire i libanesi. Ed è la ragione per cui si teme che domani la rabbia si sfoghi colpendo a caso, non potendo incanalarsi in uno sforzo costruttivo.