"Serve investire sulla qualità e sulle competenze"
Benini tra boom posti lavoro e salari bassi: “La classe media ha la stessa aliquota di chi guadagna 500mila euro, oggi artigiani chiudono e aprono case vacanze”

Incontriamo Romano Benini, docente di politiche del lavoro e consulente di diverse istituzioni, che da decenni analizza i fenomeni che riguardano il mercato del lavoro, le dinamiche occupazionali e la situazione economica.
Professor Benini, in questi giorni si dibatte sul fatto che non solo i salari italiani sono fermi da vent’anni, ma se consideriamo il potere d’acquisto sono addirittura diminuiti.
«Si è vero ed è un fenomeno che accompagna molti paesi occidentali in questi ultimi decenni. Non solo l’Italia, ma anche altri paesi come il Regno Unito ed il Giappone hanno un segno negativo. L’Occidente in questi decenni d’altra parte ha un peso inferiore nello scenario economico globale ed ha perso la sfida che aveva promosso trent’anni fa lanciando la globalizzazione. Tuttavia per l’Italia questo fenomeno è più marcato».
Da cosa dipende?
«I salari bassi dipendono innanzitutto dalla prevalenza di una economia a basso valore aggiunto, che a sua volta determina un circolo vizioso perché con salari bassi a sua volta l’economia è meno competitiva. I settori che esprimono oggi la maggiore domanda di lavoro in Italia, come il turismo, sono a basso valore aggiunto ed offrono in genere posti di lavoro meno retribuiti. Non a caso il settore economico che resta il più competitivo è anche l’unico che ha aumentato i salari negli ultimi anni in modo significativo, mi riferisco al manifatturiero. Tuttavia il calo in questi anni della quota coperta dal settore industriale in Italia e la crescita dei servizi a basso valore aggiunto determina come conseguenza il fatto che i salari medi sono bassi e sono fermi».
Cosa si potrebbe fare da subito?
«Uno degli elementi che hanno tenuto basso in questi lunghi anni il potere d’acquisto degli italiani è certamente il mancato recupero del fiscal drag, ossia dell’effetto determinato dal peso dell’inflazione sulla pressione fiscale sul reddito. Anche il ritardo nei rinnovi contrattuali ha inciso rispetto a questo fenomeno. Il recupero del fiscal drag ed i rinnovi contrattuali sono interventi importanti, ma è ancora più importante a mio parere sostenere la competitività delle imprese ed orientare i giovani alle competenze richieste dai settori a forte valore aggiunto, anche perchè c’è un problema di fabbisogni professionali che non trova risposta anche nei settori che garantiscono le migliori condizioni di lavoro».
Eppure da qualche mese abbiamo dei segnali nell’occupazione piuttosto interessanti.
«Da qualche mese abbiamo tre fenomeni coincidenti molto importanti, di cui in verità si parla poco. I salari reali, anche per l’effetto dei rinnovi contrattuali, stanno tornano a crescere dopo tanti anni. La previsione dell’Istat è di una crescita quest’anno di quattro punti, che arriva addirittura ad otto punti nel settore industriale, anche per via della domanda di competenze tecniche che si fa fatica a trovare. Al tempo stesso abbiamo assistito negli ultimi due anni ad una crescita dell’occupazione, siamo arrivati al 63% di tasso di occupazione, con un forte calo della disoccupazione ed anche un leggero calo degli inattivi. Il dato del calo demografico tuttavia non ci mette ancora al riparo nella prospettiva della tenuta del sistema e dobbiamo per questo aumentare ancora la partecipazione al mercato del lavoro, se non vogliamo finire come in Giappone in cui ormai la quota dei settantenni al lavoro supera il dieci per cento. Tuttavia, nonostante questi buoni segnali, non mi pare di vedere nel paese una riflessione adeguata rispetto alle riforme che si devono fare. Quando si parla di lavoro spesso ci si limita a polemiche sterili, quando in realtà siamo davvero di fronte ad un passaggio epocale. Eppure consolidare le tendenze positive di questi mesi è fondamentale per il Paese, non solo per l’attuale governo».
In ogni caso con salari fermi cala anche la domanda interna e questo non aiuta.
«Certo, ma questo fenomeno avviene anche per via del nostro sistema fiscale che è “falsamente progressivo”. Chi ha redditi di poco superiori ai 50mila euro, ossia la classe cosiddetta “media”, ricade nella aliquota massima del 43% esattamente come chi guadagna 500mila euro. Dobbiamo anche considerare un altro dato davvero importante e che determina effetti sulla stessa cultura del lavoro: negli ultimi vent’anni abbiamo avuto uno spostamento della ricchezza degli italiani, con un consistente aumento dei redditi derivanti da forme di rendita ed un corrispondente calo dei redditi da lavoro. Faccio un esempio chiaro. Il titolare di due case vacanze che non svolge attività imprenditoriale se incassa 50mila euro l’anno paga su questa somma una cedolare secca del 26 per cento, ossia la metà delle tasse che pagherebbero un imprenditore o un lavoratore dipendente che guadagnano 50mila euro. Infatti gli artigiani chiudono ed aprono invece le case vacanze, che peraltro non costituiscono nella maggior parte dei casi una vera e propria attività di impresa. E’ il segno di una deriva che fa pensare».
L’Italia non è più un paese adatto per chi fa impresa?
«Ci sono alcuni problemi che vanno affrontati alle radici. Una delle conseguenze di questa situazione è il calo in questi anni della propensione imprenditoriale degli italiani. Questo avviene anche perché il 92 per cento delle imprese vengono avviate solo grazie alle risorse proprie, conferite dal neo imprenditore, che sono sempre meno disponibili soprattutto per le nuove generazioni. Il Ministero del lavoro ha promosso un fondo nazionale per sostenere i giovani disoccupati che intendono mettersi in proprio, di cui si attende l’avvio da alcuni mesi e che spero possa partire presto, anche per dare un segnale forte alle nuove generazioni. In ogni caso non tutte le imprese sono uguali. Ci sono imprese che creano valore, innovano e garantiscono salari adeguati ed altre invece che agiscono in contesti in cui il rischio del lavoro sommerso e dell’evasione fiscale è molto presente. E le imprese più competitive sono proprio quelle che esportano e che sono più esposte ai dazi di Trump. Per questo motivo oggi la politica economica è sempre più anche politica estera».
Lei da decenni è un osservatore privilegiato delle dinamiche economiche del nostro paese, che cosa la preoccupa di più di questa fase?
«Questi anni in cui viviamo la grande transizione verso un nuovo modello di sviluppo in realtà sono pieni di opportunità, se le sappiamo cogliere. Il mercato globale esprime una forte domanda di Made in Italy, dazi permettendo, ed il nostro compito è quello di portare un numero sempre maggiore di imprese ad investire in competenze, innovazione e qualità. Ci sono segnali confortanti: l’ultima edizione del Fondo nuove competenze del Ministero del Lavoro ha richiesto un salto di qualità ai progetti presentati dalle imprese ed ha avuto comunque un notevole successo ed adesione. Cresce la consapevolezza nelle nostre imprese, anche le più piccole, di doversi attrezzare per gestire e superare questa fase di passaggio ed approdare ad una economia al tempo stesso sostenibile e digitale. Tuttavia questo fenomeno non è uniforme. Siamo un paese in cui ancora i furbi spesso prevalgono sugli intelligenti. La cultura del lavoro negli ultimi vent’anni in Italia è stata sottoposta ad attacchi pesanti, che non aiutano a stimolare le giovani generazioni».
A cosa si riferisce?
«La nostra è una nazione con una lunga storia. E noi siamo ciò che siamo stati, come diceva Braudel. Abbiamo un Italia che possiamo chiamare “artigiana,” ossia che genera, innova, che fa. Ed un Italia che occupa posti, che “sta”, senza che questo comporti la creazione di opportunità. Non credo che ci siano altre nazioni occidentali in cui la differenza tra queste due componenti della società sia più netta ed arrivi quasi a dividere interi settori. L’Italia che “fa “, crea valore e determina il PIL, mentre quella che “ sta” non lo crea, anzi lo abbassa. I numeri in questo sono chiari. Negli ultimi vent’anni in media il settore industriale ha determinato il 5% del PIL, il turismo ed i servizi il due, la Sanità l’un per cento e la Pubblica Amministrazione ha registrato addirittura un segno negativo. La media dice ben poco se non andiamo a distinguere chi crea valore e chi non lo fa. Sono in corso riforme e cambiamenti importanti per affrontare questa perdita di capacità, ma il rischio è che questo problema non si affronti come dovremmo anche perché in Italia abbiamo settori determinanti per la competitività del paese in cui il valore dell’appartenenza prevale su quello della competenza e la verifica dei risultati ancora non è richiesta, anche quando sarebbe prevista dalle norme di legge. Dai ministeri alle università, questa logica è molto diffusa, non aiuta il sistema Italia a generare valore ed ostacola chi agisce sul mercato. Il cortigiano da noi spesso ancora prevale sull’ artigiano. Fuor di metafora, dobbiamo ricostruire un sistema diffuso in cui la reputazione sociale torni a dipendere dalla capacità di fare ed agire e non dalla capacità di consumare. Questo è il criterio che fa funzionare le nazioni».
Questa fase di cambiamento globale che effetto può produrre?
«La transizione in corso determina i cambiamenti, ma l’effetto ha anche a che vedere con la presenza o meno di una consapevolezza condivisa, ossia di quale sia l’interesse nazionale. Uno dei limiti del nostro posizionamento sullo scacchiere geoeconomico è che noi italiani, a differenza dei francesi o degli inglesi, non abbiamo una percezione unitaria e condivisa di quale sia il nostro interesse nazionale, che superi le divisioni di parte. Non è difficile capirlo ed agire di conseguenza, ma spesso ce ne dimentichiamo. E questo ci fa a volte sbagliare le mosse, anche quelle di strategia».
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