Ed alla fine, purtroppo, quelli che la Premier Meloni ed esponenti del suo Governo hanno spesso definito – non senza malcelato disprezzo – “gli uccelli del malaugurio” hanno avuto ragione.

Da mesi, a fronte di entusiastici comunicati del Governo, economisti, imprenditori ed esperti richiamavano con forza l’attenzione su alcuni segnali poco rassicuranti provenienti dal mondo economico e delle imprese: l’elevato tasso di inflazione e soprattutto il costante aumento dei tassi di interesse deciso dalla BCE di Christine Lagarde stavano non solo frenando la crescita della nostra economia ma anche mettendo in discussione la quotidianità dei cittadini.

Da parte del Governo invece nessuna preoccupazione, nessun segnale di allarme; addirittura il partito della premier, poco più di 10 giorni fa, nelle sue pagine social ufficiali, attribuiva alle misure prese dal Governo il calo dell’inflazione, concludendo il comunicato con un inutilmente trionfalistico “l’Italia torna a crescere”.

Una visione che contrasta pesantemente non solo con la percezione quotidiana dei cittadini, che in qualsiasi tipo di sondaggio o indagine si dichiarano molto preoccupati per il loro futuro, ma anche con quanto riportano analisi economiche di autorevoli istituti e studiosi.

L’Analisi congiunturale flash, pubblicata pochi giorni fa dal Centro Studi di Confindustria, è di una chiarezza quasi spietata: la crescita dell’economia italiana è piatta, frenata da tassi elevati, e nei prossimi mesi non andrà molto meglio.
Anche se l’inflazione è in fase di riduzione, la stretta monetaria decisa dalla BCE sta avendo conseguenze nefaste sulla nostra economia a 360 gradi: il credito per le aziende è diventato troppo oneroso, calano gli investimenti, l’industria è debole ed anche l’export è in fase di discesa. E se il mondo imprenditoriale è in difficoltà, le famiglie non stanno certamente meglio.

L’aumento spesso rilevantissimo delle rate dei mutui preoccupa, anche perché non si ha alcuna certezza che il trend di crescita dei tassi sia concluso, e porta inevitabilmente alla riduzione dei consumi ed a un generalizzato calo di fiducia nel futuro.

Insomma, una situazione non certo rosea, a cui si è aggiunto negli ultimi giorni – quasi come la classica ciliegina sulla torta – anche una rilevante crescita nel costo dei carburanti, che in alcune stazioni di rifornimento in autostrada ha sfondato il tetto dei 2,5 euro al litro, con conseguenze sull’intero sistema economico ovvie e che è inutile descrivere, anche considerato che la movimentazione merci su strada non solo non diminuisce ma tende a crescere anche rispetto ai dati del periodo pre-Covid.

Alla vigilia di un esodo estivo già caratterizzato da non poche ansie, con i costi per le vacanze che sono andati alle stelle, gli italiani devono affrontare un’ulteriore batosta. La risposta del governo, prevista dal “decreto benzina” di inizio anno, è stata quella di imporre ai gestori delle stazioni di servizio di esporre dall’1 di agosto e quotidianamente non solo i costi del carburante del proprio impianto, ma anche quelli medi regionali (nazionali in autostrada).

Pur apprezzando lo sforzo per avere maggiore trasparenza dei prezzi al distributore, non posso che considerare questa risposta decisamente debole. Sarebbero necessarie innanzitutto azioni di controllo e di trasparenza lungo tutta la filiera, dall’estrazione del petrolio fino alla vendita nelle stazioni di servizio, per avere sotto controllo le dinamiche dei prezzi ed evitare che fenomeni speculativi possano incidere sui consumatori. Sarebbe necessario, in tempi di generalizzate difficoltà economiche e di riduzione del potere di acquisto dei salari, ripensare allo sconto di 30 centesimi a litro deciso dal Governo Draghi e cancellato dal Governo Meloni, nonostante le mirabolanti promesse di taglio delle accise del Vicepremier Salvini di qualche anno fa. Ma soprattutto e prima di ogni altra considerazione servirebbe rivedere l’intero sistema delle accise, che pesano per quasi il 40 per cento sul costo del carburante.

Per quanto dal 1995 l’imposta sul carburante sia stata definita in modo unitario, inglobando le varie accise, ed il suo gettito non vada a finanziare specifici capitoli di spesa, pensare che nell’imposta possano essere ricompresi contributi per la Guerra d’Etiopia del 1935 o per la Crisi del Canale di Suez del 1956 è perlomeno sconcertante.