È uscito il film Hammamet, sulla figura di Bettino Craxi, per la regia di Gianni Amelio e interpretato magistralmente da Pierfrancesco Favino. La pellicola contribuisce, nel ventennale della scomparsa, all’ormai lungo dibattito sulla figura del leader socialista e agli interrogativi sui torti e le ragioni nel confronto/scontro interno alla sinistra di quegli anni, le cui tracce sono oggi ancora molto presenti. Craxi fu una figura di sinistra riformista ed ebbe meriti e intuizioni innegabili: le più importanti furono, a mio parere, la percezione della necessità di una riforma generale delle istituzioni e le posizioni in politica estera. Colse la necessità di una “democrazia governante”, il valore della decisione come parte del meccanismo stesso della democrazia presupposto della sua costante rigenerazione.

Fu un capo di governo capace di costruire un profilo dell’Italia leale con gli alleati atlantici ma non subalterno. Tuttavia, ebbe limiti e responsabilità altrettanto grandi che compromisero, alla resa dei conti, la sua stessa visione del riformismo: egli rimase, alla fine, totalmente dentro i confini politici e morali (morale intesa meramente come “condotta” politica e non come comportamento etico e di vita) di quella prima Repubblica che egli voleva riformare anche immaginando le condizioni di una alternativa. Dopo l’89 e alla vigilia di Mani Pulite, Craxi ebbe infatti la possibilità di imboccare la strada dell’alternativa ma non lo fece e questo mi pare il punto dirimente per un giudizio “da sinistra” sulla sua figura. Il Pci non esisteva più, l’Urss era dissolto ma c’era una nuova forza politica di sinistra che, nata dalla sua trasformazione, poteva essere interlocutore del Psi per una alternativa riformista. Craxi fu invece vinto dalla tentazione di fagocitarla con la proposta della “Unità socialista” piuttosto che stabilirvi un rapporto politico finalizzato ad una “Unità riformista” che andasse oltre i margini delle famiglie socialiste o ex comuniste, magari umiliate dalla sconfitta storica di quegli anni. Questa scelta lo portò all’errore del Congresso di Bari nel riproporre l’accordo con la Dc per ragioni meramente di potere, come ha ricostruito bene, tempo dopo, Claudio Martelli.

E poi a sostenere la diserzione dalle urne in occasione del referendum sulle preferenze plurime, scontrandosi con un sentimento popolare che egli – riformista e innovatore – scambiò per una protesta di piazza. Questo dimostra che egli fu pienamente dentro il vecchio mondo pre ‘89 che comprendeva anche certe rivalse socialiste del “dopo Livorno”. Era pienamente figlio del ‘56 e confuse la svolta della Bolognina come un fatto di trasformismo neo comunista senza comprendere fino in fondo il travaglio e la mutazione genetica profonda che gli eredi del Pci stavano attraversando. La sua visione innovativa della Repubblica e del quadro internazionale mancò, insomma, nel momento decisivo. La necessità storica di una “Unità riformista” emerse con chiarezza dopo pochi anni dalla sua uscita di scena con il sorgere dell’Ulivo che peraltro riprese nei suoi programmi anche ispirazioni craxiane.

Viceversa, gli eredi del Pci transitarono lo spartiacque dell’89 con minori danni, benché non senza aporìe, perché Berlinguer aveva largamente preparato lo sganciamento politico e morale (sempre nel senso poc’anzi indicato) dal mondo diviso in blocchi e con la “svolta della Bolognina” si resero pronti e spendibili per una nuova possibile pagina repubblicana. Quanto alla cosiddetta “persecuzione giudiziaria”, bisognerebbe stabilire che quelle inchieste che lo riguardarono non avevano ragion d’essere ma così non sembra. Qualcuno sostiene che le inchieste furono un golpe. Affermazioni spericolate. Il tema della corruzione in politica è ancora vivissimo oggi e forse anche più grave di allora. L’impossibilità di un’alternativa politica contribuì purtroppo non poco alla abnorme amplificazione del ruolo della magistratura come estremo fattore risolutivo per determinare un rinnovamento delle classi dirigenti.

La rapacità degli ultimi anni della Repubblica, l’enorme debito pubblico (in parte derivato dalla crisi morale dei partiti di governo di allora) è peraltro parte integrante di un giudizio politico. Nessuno può dire (ma forse è giusto domandarselo) se una scelta di Craxi per l’alternativa dopo l’89 non avrebbe potuto mutare i termini stessi della vicenda Mani Pulite. Ecco perché oggi la figura di Craxi resta una figura contraddittoria e per certi versi drammatica; ma la complessità del giudizio sulla sua figura non può tradursi nel facile gioco della riabilitazione o della condanna imperitura.

Luci e ombre devono restare ben chiare per non sbagliare ancora e per crescere una classe dirigente che sappia sempre promuovere il rinnovamento anche rischiando se stessa per un interesse generale e soprattutto per tutelare, in nuovi contesti, i propri valori di fondo. E questa mi pare anche la lezione che oggi si può trarre, parlando di Craxi, anche per questa complessa fase della vita della Repubblica e anche per il futuro prossimo del Pd. Per non disperdere un patrimonio storico di valori e ideali occorre, in certi momenti, mettere in discussione se stessi, rischiare se stessi. È il tema del Pd in questo preciso momento storico.