L'idea
Cara Sinistra, abbassare le tasse non significa tagliare sullo Stato sociale. Il sogno italiano e la crisi del principio commutativo

La questione delle tasse ha fatto il suo ingresso con prepotenza nel dibattito politico. Nessuna sorpresa, visto che milioni di italiani votano con il portafoglio in mano e che il nostro Fisco resta vorace, sclerotizzato e inefficiente, severo con i deboli e mite con i forti. È bastato l’accenno del ministro Giorgetti a possibili “ritocchi sulle entrate” (accise sul gasolio) per scatenare un putiferio nella maggioranza di governo e la protesta indignata dell’opposizione.
Flat tax all’italiana
In ogni caso, sembra lontano il tempo in cui Matteo Salvini predicava le virtù miracolose della flat tax, perché riducendo le tasse si “rimette in moto l’economia”. Si tratta di una storia troppo bella per essere vera. Infatti le evidenze empiriche ne raccontano un’altra: le riduzioni di tasse in deficit producono deficit, buchi di bilancio che prima o poi vanno coperti con tagli della spesa o con altre tasse. Del resto, il nostro paese è noto in tutto il mondo per il design, la moda, la pizza e una flat tax “all’italiana” con aliquote differenziate e solo per alcune categorie di contribuenti.
L’idea entrata in crisi
Per i suoi sostenitori, la flat tax (quella vera) ha due caratteristiche fondamentali: semplifica enormemente il sistema fiscale e ne limita la progressività. La semplificazione è ovviamente un grande vantaggio, di fronte a un sistema fiscale come quello italiano, zeppo di una miriade di tributi, agevolazioni, deduzioni, detrazioni. I limiti che impone alla sua progressività sono invece molto consistenti. E la progressività delle imposte, dettato costituzionale a parte, è considerato dalla sinistra un tratto distintivo della cittadinanza democratica. Storicamente l’idea-forza della sinistra nel campo fiscale è stata la concentrazione del prelievo su un’unica imposta sul reddito, personale e progressiva. Tra i due criteri aristotelici assunti da Adam Smith come cardini dell’ordinamento tributario – il principio commutativo (equivalenza tra valore dell’imposta e servizio pubblico) e il principio distributivo (equivalenza tra imposta e capacità contributiva) – la sinistra ha sempre puntato sul secondo. Negli ultimi decenni, però, questa idea-forza è entrata progressivamente in crisi. Elusa o evasa da gruppi corporativi e dai ceti della rendita, la sua equità ne è risultata gravemente compromessa.
La sinistra, il partito delle tasse
È in questo contesto che esplose il fenomeno leghista alle elezioni amministrative del 1990. Umberto Bossi riuscì a interpretare abilmente la protesta dei ceti medi del Nord contro il sistema fiscale e la torsione assistenzialistica del welfare domestico, in cui era sempre più evidente lo scarto tra risorse prelevate e benefici erogati. Il sipario sulla prima stagione repubblicana cala con questa pesante eredità. Nel passaggio di secolo la crisi dell’imposta personale e progressiva non ha scosso, tuttavia, la fiducia granitica della sinistra nell’articolo 53 della Costituzione. Ora, se la sinistra è stata identificata con il “partito delle tasse” una ragione c’è. Come ha scritto lo storico Paolo Pombeni, l’incremento del prelievo fiscale è in buona parte avvenuto tra fine Ottocento e inizi Novecento per finanziare lo sviluppo dello Stato assistenziale.
Abbassare le tasse, tagliare lo Stato sociale
In Gran Bretagna i conservatori che lo avversavano ne imputavano la responsabilità all’allargamento del suffragio, che aveva portato in Parlamento i rappresentanti delle classi popolari. Lasciare ai liberali le decisioni sulla spesa sociale – si diceva allora – era “come nominare il gatto guardiano della ciotola del latte”. L’origine dell’equazione sinistra eguale più tasse sta qui. La sinistra vuole più Stato sociale. Più Stato sociale significa più tasse. Una parte non piccola della sinistra ha introiettato questo atteggiamento, e dunque ritiene che abbassare le tasse significhi tagliare lo Stato sociale tout court. Se le cose stanno così, non basta l’appello alla lealtà e al senso civico dei contribuenti. Non bastano i patti fiscali tra Stato e cittadini, le procedure telematiche, la tracciabilità della moneta, una decisa semplificazione normativa. Tutti provvedimenti importanti, sia chiaro. Occorre che la spesa pubblica corrisponda davvero a un ragionevole costo dello Stato sociale. Hic Rhodus, hic salta.
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