Il caso
Carabinieri o bucanieri? Dopo il caso Cucchi la caserma degli orrori di Piacenza

La Nazione non può fare a meno dell’Arma dei Carabinieri e nessuno ha mai neppure pensato di dover metter mano al più glorioso dei corpi di polizia, eletto finanche a Forza armata due decenni or sono accanto a Esercito, Marina e Aviazione. Un unicum al mondo, ritenuto un modello da imitare e una risorsa insostituibile nelle missioni internazionali. Ciò posto sarebbe ingiusto negare che la retata disposta dalla procura della Repubblica di Piacenza lasci tutti attoniti e sbigottiti. Al di là delle responsabilità dei singoli indagati, il coinvolgimento nell’inchiesta di un’intera struttura dell’Arma è un fatto grave che segnala, a questo punto in modo quasi irreversibile, l’emergere di un problema che deve essere risolto perché attinge alle radici della legittimazione democratica di una forza di polizia, ancor di più se si tratta di una forza armata vocata alla difesa della Nazione.
Il ripetersi di episodi che hanno visto appartenenti dell’Arma chiamati a rispondere di gravi reati nell’esercizio delle proprie funzioni (per citare l’affaire Cucchi o la violenza sulle studentesse americane a Firenze o gli sviluppi ancora del tutto imprevedibili dell’omicidio del povero Cerciello Rega) interroga in profondità la coscienza dei cittadini e lascia cicatrici che devono essere rimarginate con rapidità e decisione. La straordinaria lettera di scuse indirizzata dal Comandante generale ai familiari di Stefano Cucchi contiene considerazioni che devono essere richiamate all’attenzione di queste ore in cui una caserma intera è stata messa sotto sequestro come fosse un covo di bucanieri e sopraffattori. Scriveva il generale Nistri: «Io per primo, e con me i tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell’essere accostati a comportamenti che non ci appartengono». Parole importanti che, a questo punto, esigono anche rimedi altrettanto decisi e decisivi.
Ritenere che l’Arma potesse mantenersi esente da fenomeni degenerativi che, purtroppo, riguardano anche altre primarie istituzioni pubbliche sarebbe stato illusorio e nessuno si deve lamentare di uno sfilacciamento della coesione etica in qualche segmento dell’apparato. Ma mentre la corruzione o il malaffare negli uffici pubblici provocano le sperpero di risorse collettive e distruggono l’efficacia dell’azione amministrativa, le devianze dei corpi di polizia minacciano beni assolutamente primari e inviolabili del cittadino, tra cui in primo luogo la sua libertà personale e la sua incolumità fisica. La sola idea che qualcuno possa sentirsi a rischio o anche solo a disagio nell’entrare in contatto con un carabiniere o un poliziotto segna ovunque il discrimine tra una nazione democratica e un enclave sudamericana senza regole. E non serve richiamare l’ampio dibattito, in corso da decenni negli Usa, o le recenti, pesanti reazioni al caso di George Floyd per comprendere quali siano i parametri secondo cui si misura il rating di legalità dell’azione di polizia in una nazione.
Il dovere dell’assoluta intangibilità fisica e morale dell’uomo in vincoli (Habeas corpus), il rispetto della sua indifesa soggezione alla potestà pubblica sono le colonne d’Ercole oltre le quali nessuno può spingersi. La relazione fiduciaria tra cittadini e forze di polizia non si manifesta solo – e com’è giusto – nella richiesta di un aiuto o di un intervento (che non mancano mai), ma soprattutto nella serenità e tranquillità con cui ciascuno affida sé stesso – anche contro la propria volontà se in custodia – alle mani di chi esercita su di lui una potestà limitatrice.
Mantenere indenne questa sottile linea rossa che separa la forza legittima e l’arbitrio, impedire che la corruzione o l’abuso possano impadronirsi anche solo a macchia di leopardo delle strutture di polizia, evitare il formarsi di circuiti investigativi opachi in cui pubblici ministeri e operatori di polizia rafforzano legami extralegali al riparo o con la malcelata sopportazione dei vertici, contenere un carrierismo esasperato che induce a privilegiare i contatti con l’establishment gerarchico piuttosto che a dedicarsi all’antica, paziente cura degli uomini al proprio comando, sono obiettivi probabilmente imprescindibili per ogni forza di polizia in questo momento storico. E a maggior ragione per l’Arma dei carabinieri che ha un posto speciale e unico nella considerazione dei cittadini.
Per farlo sono necessari, corpo per corpo e apparato per apparato, approcci diversi e soluzioni differenti. Troppo profonde le differenze strutturali e operative tra le tre principali forze di polizia perché possano immaginarsi rimedi omogenei. Certo, genera acuta attenzione il concentrarsi di episodi sul versante della Benemerita e il moltiplicarsi di casi mediaticamente dirompenti. Aveva ragione il generale Nistri quando scriveva alla famiglia Cucchi «…il rispetto assoluto della legge ci costringe ad attendere la definizione della vicenda penale. Come vuole la Costituzione, la responsabilità penale è personale. Abbiamo bisogno che sia accertato esattamente, dai giudici, “chi” ha fatto “ che cosa”». E malgrado ciò si staglia con una certa chiarezza, in queste parole, anche una fragilità e un limite oggettivo che l’attività di prevenzione interna degli abusi e dei reati incontra in una struttura che annovera oltre 4.500 stazioni e un centinaio di altri comandi.
Un’articolazione pulviscolare pressoché unica e nella quale, drammaticamente, la lacerazione deontologica e l’aberrazione comportamentale sono più difficili da rilevare e da reprimere con rapidità. La lunga catena di comando che ha storicamente connotato l’organizzazione dell’Arma (che in oltre 3.700 comuni rappresenta l’unica forza di polizia presente) evidenzia cedevolezze e mostra crepe che vanno affrontate da chi di dovere. Con molta approssimazione e in punta di piedi può, forse, dirsi che la formazione dei quadri intermedi sia lo snodo nevralgico di questa sfida, come tutte le vicende recenti hanno mostrato. Sembra che occorra rafforzare la vicinanza dei comandi locali alle più piccole strutture periferiche affinché avvertano, a un tempo, la presenza e anche il controllo dei protocolli in cui sono inseriti. Protocolli in cui è sempre immanente il rischio che la burocrazia si sostituisca alla gerarchia. Probabilmente per nessuna altra articolazione dello Stato-amministrazione si avvertono così forti il coinvolgimento e l’aspettativa dei cittadini che hanno un preciso interesse all’onore e alla disciplina (art.54 Cost.) di tutta l’Arma solo perchè ne vanno orgogliosi.
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