Il seminario del gruppo dei deputati democratici a Reggio Emilia è stato un momento importante per la costruzione di un’alternativa di progetto per il governo del Paese. Il punto focale: la necessità di un nuovo ruolo del “pubblico” nella definizione delle linee economiche e sociali, davanti alla nuova situazione determinata dall’introduzione dei dazi commerciali e dalla ristrutturazione di interi settori industriali che ne deriverà. Pubblico non vuol dire parimenti statale, ma “interesse pubblico”, riequilibrio sociale davanti all’enorme distanza di redditi, patrimoni e opportunità, cresciuta nel tempo, che, per buona parte, è alla base del successo del populismo e delle difficoltà di una sinistra che non si è avveduta degli effetti distorsivi della globalizzazione.

I temi

Il tema della “difesa comune” europea rientra in qualche modo in questo discorso. È chiaro a tutti che una profonda innovazione dei sistemi di difesa che consolidino la costruzione di un organismo europeo più forte e unito è, in prospettiva, nell’interesse dei popoli europei e delle classi più deboli, perché contrasta il sovranismo – e già si vede – che preferisce un’Europa divisa e quindi in balia delle grandi potenze autoritarie e della loro egemonia commerciale e industriale. Tra le questioni principali di un forte ritorno del “pubblico” vi è la questione fiscale. Lo Stato esiste in quanto esercita una forza che regola i rapporti tra le classi e la leva fiscale è lo strumento principale per rendere equo o squilibrato questo rapporto e garantire il patto sociale di convivenze e di forza dello Stato democratico. Uno Stato autoritario esercita questa pressione con la “forza” in senso stretto.

L’Europa democratica ha bisogno di risorse proprie maggiori di quelle presenti, di un bilancio federale più solido di quello attuale in rapporto agli Stati nazionali per ottenere dalle grandi multinazionali, soprattutto big-tech, adeguate compartecipazioni e introiti fiscali. Ma anche alcuni Stati nazionali possono intervenire da subito per correggere storture e ritardi che pesano sulla loro condizione sociale e sui gravi squilibri del rapporto tra le classi. In Italia deve aprirsi la discussione sulla patrimoniale, sulle alte rendite e le grandi fortune, soprattutto patrimoniali e finanziarie, maturate negli anni della globalizzazione non solo per merito dei loro possessori, ma per le favorevoli condizioni delle posizioni di tutte le rendite.

Servono case

Il caso più eclatante è quello della casa. Nel 1949, alla vigilia del fatidico “piano Fanfani”, esisteva un fabbisogno abitativo di 300mila alloggi. Allora fu affrontato con un programma quindicennale di 700 miliardi per larga quota pubblici e per una parte versati da imprenditori e lavoratori. Oggi il fabbisogno è lo stesso: 300mila alloggi. Ma non ci sono soldi in cassa e aree adeguate per costruire. Ci sono però gli enormi profitti che ancora la trasformazione edilizia produce (fino al 70 o 100 per cento tra prezzo di produzione e prezzo di vendita) e che solo per il 5 o 6 per cento vengono versati ai Comuni come oneri di urbanizzazione. Questo settore va completamente rivoluzionato se si vuole creare una disponibilità pubblica per lanciare nuovi programmi di edilizia pubblica. In Germania gli oneri di trasformazione sono pari in media al 30% dei profitti. E con quelle risorse si fanno le case per le fasce deboli. È una misura di giustizia sociale equilibrata e per nulla predatoria. In Italia bisogna cambiare l’articolo 16 del testo unico per l’edilizia e introdurre un Contributo Unico di Costruzione (Cuc) che arrivi almeno al 15 per cento degli utili tra produzione e vendita. La metà della Germania. Il beneficio per i Comuni sarebbe (sulle stime della produzione 2024) di 15 miliardi che, tradotto in case, vuol dire 10mila alloggi all’anno. Se cerchiamo una maggiore giustizia fiscale, che migliori le condizioni di vita delle famiglie in maggiore difficoltà, si può e si deve partire da qui.