«Il pentimento di Francesco Schiavone è comunque un dato estremamente positivo per la giustizia», afferma l’ex Pm anticamorra Catello Maresca. Attualmente fuori ruolo con l’incarico di segretario particolare del presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali, Maresca nel 2011 quando era in servizio presso la Direzione distrettuale antimafia di Napoli catturò Michele Zagaria, uno dei boss dei Casalesi, detto “primula rossa” della camorra per i suoi 16 anni di latitanza. Proprio Zagaria in quel periodo aveva preso il posto di Francesco Schiavone. Quest’ultimo, detenuto al 41 bis dal giorno del suo arresto, ha deciso nelle scorse settimane di collaborare con i magistrati. Condannato a due ergastoli, la sua famiglia ha un patrimonio stimato di circa 30 miliardi di euro.

Dottor Maresca, Schiavone è in carcere dal 1998. Da allora sono passati più di 25 anni. Ci spieghi perchè un boss della camorra di quello spessore ha sentito l’esigenza di pentirsi dopo tutto questo tempo. E, soprattutto, cosa significa questo pentimento.
«Guardi, è molto semplice. Il messaggio che passa con il pentimento di Schiavone è che il clan dei Casalesi adesso non esiste più. Dalla sentenza del maxi processo Spartacus in avanti è cambiato tutto».
Siamo sicuri?
«Forse ci si dimentica che il clan del Casalesi aveva fra i fondatori lo stesso Schiavone. E se una persona di quella caratura criminale matura la decisione di pentirsi vuol dire che il clan è ormai finito».
Cosa può aver spinto Schiavone a pentirsi?
«Molto ha influito il martellamento continuo da parte delle forze di polizia e della magistratura. In questi anni non si contano, a parte gli arresti, i sequestri di beni che sono stati effettuati nei confronti di esponenti del clan».
Il territorio è cambiato?
«Certo. Dove prima imperversano i Casalesi i territori ora possono dirsi liberi dalla loro oppressione».
Cosa potrà raccontare Schiavone ai suoi colleghi? Ci sono aspetti ancora non chiari nelle dinamiche criminali di questi anni?
«Spero sinceramente che racconti i rapporti che ha avuto non solo con settori della criminalità ma anche con settori della politica e dell’imprenditoria. Ci sono molti punti ancora oscuri».

Come si è sviluppato il clan dei Casalesi?
«Il clan dei Casalesi nasce con Antonio Bardellino che vince la guerra di camorra con Raffaele Cutolo. Parliamo di un clan criminale che poi ha gestito miliardi. Si pensi soltanto ai soldi che sono stati dati per la ricostruzione post terremoto in Campania. E poi tutto ciò che ruotava intorno allo smaltimento dei rifiuti e al calcestruzzo da impiegare nell’edilizia».
Che parola userebbe per descrivere il clan dei Casalesi oggi?
«Inabissato. Dopo gli arresti di Zagaria e Antonio Iovine il clan dei Casalesi si è inabissato. Venuti meno i boss di primo piano, ci sono ora i gregari. Come lo è stato lo stesso Walter, il figlio di Schiavone che ha cercato di imitare le gesta del padre».
Finiti i casalesi che fine farà la camorra? O almeno la camorra come l’abbiamo concepita fino ad oggi?
«Da osservatore esterno quale sono adesso vedo una realtà molto disgregata. Le alleanze criminali di un tempo sono venute meno e anche lo stesso sistema di controllo del territorio».

Quali sono gli assetti criminali adesso?
«C’è la camorra napoletana che si occupa di spaccio di droga, estorsioni, gioco azzardo. E c’è la camorra della provincia Caserta, che si occupa del calcestruzzo, dei rifiuti, del riciclaggio. Ci sono poi ambiti più articolati, penso all’imprenditoria legata alla ristorazione, con i prestanome».
“Finiti” i casalesi è inevitabile una riflessione sul ruolo dell’Antimafia. Serve ancora?
«È un tema questo molto ricorrente. Ciclico. Teniamo presente che parliamo di fenomeni criminali che esistono da quasi 200 anni. Bisogna essere lungimiranti. La criminalità organizzata ha momenti di sovraesposizione, con le stragi e gli omicidi, e momenti come ho detto prima di inabissamento. E poi c’è il tema degli ergastolani di camorra. Prima o poi usciranno dal carcere anche loro e cosa pensiamo torneranno a fare?».
Il germe mafioso esiste sempre?
«Sempre».
Cosa potrebbe essere d’aiuto?
«Serve prevenzione. Bisogna saper guardare al futuro. Penso alle nuove generazioni che non vanne lasciate sole».
Ci descriva la realtà napoletana.
«Se mi passa il gioco di parole vedo una “microcriminalità organizzata”. Ci sono criminali sempre più giovani che si strutturano, allenandosi a diventare da grandi dei boss».
Tolto l’ossigeno alla criminalità di casa nostra lo spazio lasciato libero da chi verrà preso?
«Ci sono sicuramente le mafie straniere, violentissime e senza alcuna remora. Bisogna tenere alta la guardia».
Veniamo invece ad un argomento molto delicato: i rapporti della criminalità con la politica. Ci dica la sua opinione.
«In passato ci sono stati politici che hanno riportato condanne definitive per la loro vicinanza alla criminalità organizzata. Adesso la situazione è completamenti cambiata. Non c’è più quella che io definirei la “sfacciatagine” di un tempo. I politici hanno capito la lezione. È sufficiente vedere quello che sta succedendo a Bari. Il rischio di scioglimento di una amministrazione locale è dietro l’angolo. Nessun politico si espone a questo rischio. C’è molta più vigilanza e, soprattutto, consapevolezza».
La Direzione nazionale antimafia in queste settimane è travolta dallo scandalo dei dossieraggi effettuati dal finanziere Pasquale Striano. Un commento?
«È una brutta vicenda e serve fare chiarezza. Quanto accaduto dimostra l’estrema vulnerabilità delle banche dati dell’ufficio. Io mi chiedo solo perché ci sia voluto tanto tempo prima di intervenire».
Si doveva capire che c’era una concentrazione di notizie sensibili in mano ad una sola persona?
«Assolutamente».
Il ruolo della Dna non si tocca?
«Dubitare della sua importanza mi crea profonda tristezza. Io penso che in questo momento molto difficile tutti debbano impegnarsi per tutelare la sacralità della Dna».
Prima di concludere vorrei la sua opinione sull’introduzione dei test psicoattitudinali per fare il concorso in magistratura.
«Io personalmente non la sto vivendo come fanno certi miei colleghi come un dramma. Sono soltanto dispiaciuto che possano essere considerati come un qualcosa di punitivo nei confronti della magistratura stessa. E questo non va bene»

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Giornalista professionista, romano, scrive di giustizia e carcere