Il dottore che opera a cuore aperto sotto le bombe
Chi è Franco Masini, l’ultimo medico di Emergency in Sudan: “Non sono un eroe, resto qui a salvare vite”

Così salvo vite sotto le bombe di Khartoum. Parla l’ultimo medico italiano rimasto con Emergency in Sudan. Il Sudan è un inferno sulla terra: le due fazioni dell’esercito in lotta fratricida stanno provocando un bilancio di migliaia di vittime. Centomila sudanesi sono in fuga all’estero, 330.000 sono gli sfollati. Sotto al fumo delle bombe, tra le macerie, brilla però una luce. C’è un medico italiano che non si arrende. Ha 72 anni. A lungo responsabile dell’unità coronarica dell’ospedale di Parma, Franco Masini ha abbracciato dieci anni fa la missione di Emergency. E da allora si è buttato a capofitto in un lavoro che sfida ogni giorno la vita: da due anni e mezzo è a Khartoum, capitale del Sudan insanguinato oggi per il ventesimo giorno di guerra civile. Rappresenta Emergency, di cui è coordinatore medico: si è opposto all’evacuazione, non ha voluto chiudere la sua strutture nella capitale sudanese. Prova a tracciare percorsi di cura, circondato dal gorgo del caos e della violenza. È uno dei tre italiani rimasti in Sudan. Opera ogni giorno i suoi pazienti al cuore, tra le macerie. E spera di salvare più vite possibili, nonostante tutto.
Non vuole sentirsi chiamare eroe, professore, ma un po’ lo è.
Ma quale eroe, sono un medico. E non mi chiami neanche professore, dottore e basta.
Ci vuole coraggio a rimanere sotto le bombe, e operare a mano ferma in quella situazione…
Operare al cuore implica nervi saldi e sangue freddo. Forse l’esperienza mi sta aiutando a affrontare meglio l’assurdità della guerra civile.
Com’è la situazione a Khartoum?
Siamo nel pieno della tragedia. Ci troviamo nella periferia della capitale. In un sobborgo che si chiama Soba. Soba Hilla. La situazione che vediamo e sentiamo direttamente è quella di una guerra tra bande che mette il paese a ferro e fuoco. Ci sono tregue ripetute che vengono programmate per poi non essere rispettate.
La struttura del suo ospedale è stata colpita?
Non direttamente, ma siamo circondati da strade bombardate. L’acqua non arriva, la luce è intermittente. E a un chilometro da dove sto adesso mentre parliamo c’è un ponte sul Nilo che è considerato target militare strategico. Lì si sparano in continuazione, ieri l’aeronautica ha bombardato. Ma noi stiamo bene.
Nel vostro ospedale quali sono le criticità?
Stiamo continuando a operare i pazienti che assistevamo prima, e si sono aggiunti migliaia di nuovi pazienti. Abbiamo dovuto ridurre le attività, sono stati dimessi tutti i ricoverati che potevano proseguire le cure a casa. Abbiamo preso una guest house qui vicino per poter estendere la nostra assistenza anche lì.
Come state cambiando l’operatività, sotto le bombe?
Stiamo evacuando molti pazienti, altri sono rimasti bloccati qui in questa terra di nessuno. Non ci sono più le ambasciate, che hanno chiuso tutto. Non ci sono più voli.
E adesso l’unica autorità che rimane è Emergency. Dunque lei.
Siamo una piccola autorità sanitaria a cui questa maledizione della guerra sta chiedendo tanto. Siamo ogni giorno davanti alla scelta di chi salvare e come provarci.
Operare al cuore sotto le bombe è da eroi. Eppure lei si sente in colpa.
Il problema è semplice: se dobbiamo evacuare in pochi secondi, chi è in terapia intensiva non potrà essere staccato dalle macchine. Ho operato due pazienti molto critici – due giovanissimi, uno di otto anni e una di quindici – negli ultimi due giorni: io spero di poterli staccare dai ventilatori prima che ci colpisca una bomba. E può accadere da un momento all’altro.
Quali sono le criticità principali?
Quando tutto funziona, abbiamo 150 persone di staff. Quasi tutto personale locale. Molti oggi sono andati via. Abbiamo fatto un accampamento interno con i materassi dove dormiamo tutti insieme. Affrontiamo insieme la paura e la fame, e non abbiamo mai fatto saltare un turno. Non so come pagheremo gli stipendi del personale, anche perché tutte le banche sono chiuse. Siamo nell’anarchia, ma teniamo accesa la nostra luce.
Come mantenete i contatti con l’Italia?
Tutte le mattine c’è una riunione telefonica con Milano, ci sentiamo, mi chiedono come sto e cosa manca.
E con la Farnesina?
Ogni tanto ci telefona l’unità di crisi, ci chiedono cosa succede.
Al governo italiano cosa chiede?
Di fare tutta la pressione possibile negli organismi internazionali perché si arrivi a un cessate il fuoco e a negoziati tra le parti.
Spera di tornare presto in Italia?
No, spero di continuare a fare il mio lavoro. Ero qui da prima di questa folle guerra, rimarrò anche dopo.
Non ha paura?
Tutti hanno paura. A me fanno paura quelli che sparano, perché la follia dell’uomo rimane misteriosa. Io non ho paura di rimanere, e di rimanere a curare chi rischia la vita.
Ma quando tornerà a Parma, cosa farà?
Farò un bel giro in bicicletta e andrò a vedere una partita al Tardini.
*ha collaborato Federico Casanova
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