Prima, l’elezione di un laburista a Capo dello Stato. Poi, la stretta nella formazione di un governo che lo esclude. Quella di ieri è stata una giornata storica per Israele. L’inizio, di fatto, dell’era “post Netanyahu”. Isaac Herzog è il nuovo presidente di Israele. Lo ha eletto ieri in prima votazione la Knesset con 87 voti. L’altra candidata, l’educatrice di stampo più conservatore Miriam Peretz, ha ottenuto 26 voti. Herzog, 61 anni, attuale presidente dell’Agenzia ebraica ed ex leader dei Laburisti, prende il posto, come undicesimo presidente di Israele, di Reuven Rivlin che tuttavia resterà in carica fino al 9 luglio.

Gli astenuti durante la votazione sono stati 7. La maggioranza avuta da Herzog è stata una delle maggiori finora. Il neo-eletto capo dello Stato ha alle spalle una lunga tradizione politica: è infatti il figlio di Chaim Herzog, ambasciatore dello Stato ebraico alle Nazioni Unite, prima di ricoprire il ruolo di presidente per dieci anni, dal 1983 al 1993. Il nonno fu il primo rabbino capo d’Israele, mentre lo zio, Abba Eban, ricoprì cariche diplomatiche e fu ministro degli Esteri tra il 1966 e il 1974. «Sarò il presidente di tutti. Darò ascolto a qualsiasi posizione e a qualsiasi persona». Sono state queste le prime parole del nuovo presidente. Herzog ha quindi sottolineato l’importanza di costruire «ponti e accordi tra di noi», ovvero all’interno della società israeliana, e «con i nostri fratelli e sorelle della diaspora». «Accetto su di me la pesante responsabilità che mi avete affidato. Accetto il privilegio di servire l’intero popolo israeliano», ha proseguito.

Citato dal quotidiano Haaretz, Herzog ha ammesso che «le sfide sono grandi e non devono essere sottovalutate. È essenziale curare le ferite sanguinanti della nostra società. Dobbiamo difendere la posizione internazionale di Israele e il suo buon nome tra le nazioni». Inoltre, ha aggiunto, è necessario «combattere l’antisemitismo e l’odio verso Israele» oltre che «proteggere i pilastri della nostra democrazia». Avversario di Benjamin Netanyahu nelle elezioni del 2015, Herzog ha quindi auspicato di «poter lavorare con qualsiasi primo ministro e con qualsiasi governo». Citato dal Times of Israel, Netanyahu ha risposto con un glaciale: «Non è questo il momento di affrontare questa questione». Per poi congratularsi per la sua elezione, augurandogli un “grande successo” a nome di tutti i cittadini israeliani. D’altro canto tra i due non c’è mai stata simpatia, né politica, né personale. Uomo pacato, Herzog ha accusato Netanyahu di aver trascinato il Paese “in uno stato d’isteria” isolandolo internazionalmente.

Ma il colpo più duro, politicamente letale, per Netanyahu deve ancora arrivare. Questione di ore. “Tutti, tranne Bibi”. È il proposito che tiene assieme un rampante leader di destra, un centrista moderato e i pacifisti di Meretz. L’uscita di scena del Primo ministro più longevo nella storia d’Israele è la “mission” che mette tra parentesi profonde divisioni ideologiche, che unisce ciò che, in una democrazia non tossica come è oggi quella israeliana, sarebbero l’uno contro l’altro in “armi” (politiche naturalmente). Ma è proprio questo convergere tra opposti che dà il segno dell’emergenza democratica che vive, non da oggi, Israele. Una emergenza che ha un volto e un nome: Benjamin Netanyahu. Di certo, “Bibi” non si farà da parte senza combattere. Non è nel suo stile. Voleva un governo di destra, imbarcando anche i kahanisti di Sionismo Religioso.

Aveva radicalizzato il Likud, evocato l’annessione di parte della Cisgiordania e rivendicato la vittoria nella quarta guerra di Gaza. Ma è proprio una parte della destra che gli ha voltato le spalle. E se dopo dodici anni di regno “King Bibi” dovrà deporre lo scettro, sarà per il “fuoco amico” di politici che a destra sono saldamente ancorati: Naftali Bennet, Gideon Sa’ar, Avigdor Lieberman. Netanyahu lo sa bene, per questo ha avviato una guerra mediatica contro quello che considera il capo dei congiurati: Naftali Bennett, leader di Yamina (Destra). «Aveva detto in campagna elettorale che non avrebbe appoggiato Lapid, di essere un uomo di destra, attaccato ai suoi valori. Naftali, i tuoi valori hanno il peso di una piuma», ha tuonato Netanyahu, «L’unica cosa che gli interessa è fare il premier. È scandaloso che con 6 seggi si possa fare il premier. Gli israeliani che mi hanno scelto con 2 milioni e mezzo di voti volevano me come premier», sentenzia.

Bennett non porge l’altra guancia e attacca frontalmente. Parla già da premier in pectore. «A nessuno verrà chiesto di rinunciare alle proprie idee, ma tutti dovranno posticipare la realizzazione di alcuni dei loro sogni. Ci concentreremo sul possibile, anziché discutere dell’impossibile», ha detto Bennett nella serata di domenica. “Discutere sul possibile”. E il “possibile” che unisce gli opposti è mettere fine all’era Netanyahu. «L’evento più importante di queste giornate frenetiche e per molti versi drammatiche per il futuro stesso d’Israele, è stato l’incontro tra Bennett e il presidente della Lista Araba Unita Mansour Abbas – annota Yossi Verter, firma di punta di Haaretz, tra i più autorevoli analisti politici israeliani – Finalmente, Bennett ha fatto un passo di leadership, un passo considerato ‘coraggioso’. Liberato dalle intimidazioni della frangia estrema della base, ha osato fare ciò che il grande capo non ha ancora fatto. Fino a mercoledì scorso, Netanyahu era convinto quasi al 100% che Abbas e i suoi tre colleghi di partito non avrebbero facilitato la creazione di un governo di ‘cambiamento’. Non l’avrebbero appoggiato, né si sarebbero astenuti in una votazione; avrebbero votato contro. Ma la ‘buona’ riunione, come l’ha definita il presidente di Yamina, ha chiarito a Netanyahu che Abbas non lo ha in tasca».

L’asse Bennett-Lapid tiene. A confermarlo è il patto di rotazione raggiunto dai due: se, come ormai appare certo, il governo “anti-Bibi” sarà varato, Bennett ne sarà il Primo ministro fino al 2023 per poi lasciare il posto a Lapid. Nella maggioranza di governo ci sarebbero, oltre Yesh Atid (C’è un futuro) di Lapid e Yamina (Destra) di Bennett, anche New Hope (Nuova Speranza) dell’ex Likud Gideon Saar, Yisrael Beiteinu (Israele casa nostra) di Avigdor Lieberman, Kahol Lavan (Blu bianco) di Benny Gantz, i laburisti e la sinistra di Meretz. I seggi in complesso si arriverebbe a 58 seggi ai quali si aggiungerebbe l’appoggio esterno dei 4 seggi del partito arabo israeliano Raam di Mansour Abbas e dei 6 seggi della Joint List, l’altra formazione politica araba-israeliana, per una somma di 68 seggi, ben più dei 61 su 120 necessari alla Knesset. Ma i termini dell’appoggio dei partiti arabi-israeliani non sono ancora chiariti.

«Sappiamo bene che tra noi e Yamina o Yisrael Beteinu o New Hope esistono visioni non solo differenti ma alternative – ci dice Mirav Michaeli, la leader del Partito Laburista-. Ma oggi siamo chiamati a ‘congelare’ queste differenze per un bene superiore: la democrazia. Un bene che Netanyahu ha messo in discussione, con un comportamento irresponsabile, indegno di un Primo ministro, attaccando la magistratura, gridando al “golpe legale”, fomentando la piazza. Un comportamento eversivo, Se riusciremo a dar vita a un governo della normalizzazione democratica sarà un bene per il Paese. Il Labor è stato il partito fondatore dello Stato d’Israele. E tutti i nostri grandi leader, da Ben Gurion a Golda Meir, da Yitzhak Rabin a Shimon Peres, sono stati mossi in momenti cruciali per l’esistenza stessa d’Israele, da un interesse supremo: l’interesse nazionale. Ed oggi ciò significa liberare Israele da chi lo tiene in ostaggio per i suoi interessi personali. Liberarlo da Benjamin Netanyahu».

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.