La sinistra, Israele e Palestina
“Hamas non è Arafat, ma anche Netanyahu mette Israele in pericolo”, parla Lia Quartapelle
La sinistra e Israele. La sinistra e i Palestinesi. Amori e tradimenti. Il Riformista ne discute con Lia Quartapelle, capogruppo del Pd alla Commissione esteri della Camera, responsabile Europa, Affari internazionali e Cooperazione allo sviluppo nella segreteria nazionale del Partito democratico.
Se l’Italia e l’Europa vogliono restare fedeli ai propri valori e principi, in Medio Oriente hanno solo una cosa da fare: difendere lo Stato d’Israele. Così in una intervista a questo giornale si è espressa Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. questa la strada da seguire?
In un’area del mondo dove trionfano dittatori e autocrati, dove i cittadini sono esposti quotidianamente ai soprusi di chi li governa, dove l’autorità politica sconfina facilmente nell’integralismo religioso, Israele è una democrazia. L’unica secondo i nostri standard europei ed occidentali delle liberaldemocrazie. Mentre le minoranze cristiane, yazide, zoroastriane lasciano il Medio Oriente scacciate dai fondamentalisti, Israele ha finora tutelato i diritti delle minoranze e questo ha permesso che cittadini di culture e religioni diverse convivano, pure tra tensioni (basti pensare alle continue tensioni e incomprensioni profonde tra gli ebrei laici e gli Haredim). In Israele c’è lo stato di diritto, tant’è che per molte questioni che riguardano anche le violazioni del diritto internazionale connesso all’occupazione interviene per fortuna la Corte suprema. Oppure, come nel caso del sergente Azaria, che uccise un terrorista già disarmato e a terra, il comando dell’esercito (IDF) stesso. L’Italia può non identificarsi con uno stato fondato su questi principi? A maggior ragione quando è sotto attacco di un movimento terrorista come Hamas, che nel suo statuto prevede la distruzione di Israele. È qualcosa di più che una questione di valori. È riconoscere che Israele è un paese come il nostro, fa parte della nostra stessa famiglia. Non facciamo l’errore di molta della sinistra europea o di chi ha una mentalità totalitaria a destra e sovrappone Stato e governo. Difendere senza esitazioni il diritto all’esistenza dello Stato di Israele non vuole dire però rinunciare a criticare le scelte del suo governo. La politica di Netanyahu basata su colpi di mano su Gerusalemme, sfratti, illegale avanzata delle colonie, va criticata perché ha allontanato la possibilità della pace e quindi della sicurezza per Israele. Come abbiamo visto con le scene di aggressione a Ramla, Acri, Jaffa, Lod, cioè in comunità miste dentro lo Stato di Israele, le politiche di Netanyahu, la sua crescente complicità verso organizzazioni ultra-nazionaliste e revisioniste hanno messo in difficoltà non solo il rapporto con Gaza e la Cisgiordania ma anche la convivenza dentro lo stesso Stato di Israele, lasciando una eredità avvelenata anche per chi verrà dopo di lui. Netanyahu si è illuso che, firmando la pace di Abramo con gli Emirati e il Bahrein, si potesse sistemare in modo surrogato, con una facile scorciatoia, anche la vicenda palestinese. Una miopia selettiva e pericolosa, sia per quanto riguarda alcuni attori regionali in gioco (Turchia e Iran), sia per quanto riguarda i palestinesi stessi, tagliati fuori e di proposito da questi accordi. La sicurezza di Israele e la pace passa dal negoziato diretto con i palestinesi e dal riconoscere a loro direttamente i diritti che gli sono finora stati negati. Continuare fingere di non vederli, come ha scritto in un bellissimo libro (La mia Terra Promessa, Rizzoli, ndr) il giornalista israeliano Ari Shavit, è arrogante, frutto di una impostazione paternalista ed è una ricetta per il disastro.
La sinistra ha tradito i palestinesi, afferma Massimo D’Alema in una intervista a Il Fatto quotidiano. L’amicizia per gli arabi, aggiunge D’Alema, appartiene alla democrazia italiana, da Moro a Berlinguer, fino a Craxi. Oggi è un’amicizia tradita?
La tutela degli interessi nazionali italiani richiede buoni rapporti, franchi e frequenti, con tutti i paesi del Mediterraneo, non solo con i paesi arabi. Dall’epoca di Craxi, Berlinguer, e pure dall’epoca di D’Alema molte cose sono cambiate. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una estremizzazione tanto negli schieramenti dentro Israele quanto nella politica palestinese. Alla leadership di Fatah, invecchiata e indebolita, incapace di favorire una successione, si sta sostituendo quella di Hamas e di altri gruppi terroristi. Il risultato di tutto questo lo abbiamo visto nella guerra di questi giorni, in cui il confronto è stato tra Hamas e la destra israeliana. A D’Alema, chiedo: amici, ma con chi? È anche solo pensabile di avere oggi con Hamas lo stesso rapporto che Craxi aveva con Arafat? Se – come credo – non lo è, chi sono i nostri interlocutori politici tra i palestinesi? La politica progressista europea è unita nel condannare le azioni di annessione e l’avanzata delle colonie da parte di Israele e nel chiedere i diritti per i palestinesi. Ma se la politica progressista vuole uscire dalla logica di chi sta sugli spalti e fa il tifo, e vuole incidere, deve darsi da fare per cercare nuovi spazi, nuovi interlocutori per la sicurezza e la pace. Deve dare loro spazio e sostegno, pensando al presente intollerabile per la stragrande maggioranza dei palestinesi e al futuro di Israele e della Palestina. La tregua non è l’occasione per mettere tutto nel cassetto, anzi. È un tempo che va usato per fare un salto di qualità nella frequenza e intensità di ingaggio con i palestinesi. Dobbiamo parlare con il partito arabo della Joint List, con molte delle esperienze di pace e convivenza concreta tra arabi e israeliani, con il movimento Omdim Beyachad, che in Israele ha portato in piazza cittadini arabi e ebrei a favore della soluzione dei due Stati. Con i sindaci della Cisgiordania e con gli esponenti politici del mondo palestinese che, pure se in minoranza, hanno cercato la nostra interlocuzione e provato a inventare strade diverse dal terrorismo o dalla rassegnazione. Anche con gli israeliani e l’ebraismo dobbiamo intensificare le relazioni: con i leader politici israeliani che sono consapevoli dell’ambiguità strumentale che Netanyahu fa del conflitto come denunciato da Yair Lapid, che ha detto che gli eventi del conflitto rendono ancora più necessario sostituire Netanyahu alla guida del governo. Dobbiamo parlare con i Commanders for Israel’s security, con l’associazione J-Street o con B’tselem, associazione israeliana che difende i diritti umani nei territori occupati.
L’Europa continua a evocare una “soluzione a due Stati”. Ma la politica di colonizzazione della Cisgiordania portata avanti da Israele non ha di fatto determinato un’annessione di quei Territori palestinesi e reso impraticabile quella soluzione?
La politica dell’avanzata delle colonie in Cisgiordania è illegale e va condannata e sanzionata in tutte le sedi opportune, così come quella dei colpi di mano su Gerusalemme e indubbiamente allontana la possibilità della pace. Prima di cestinare la soluzione dei due popoli due stati, l’unica che garantisce uno Stato per i palestinesi e sicurezza a Israele, proverei ad avere una alternativa valida e riconosciuta da palestinesi e israeliani. E siccome questa al momento non c’è, sarei cauta nel cestinarla perché significa da una parte condannare Israele ad una insicurezza perenne, dall’altra archiviare anche le richieste di giustizia che ci vengono da parte palestinese, che con la soluzione due popoli due stati sono garantite almeno sulla carta. Il disimpegno da Gaza voluto nel 2005 da Sharon dimostra però che le leadership israeliane, se vogliono e se lo ritengono funzionale alla sicurezza dello Stato, possono disimpegnarsi dalle colonie in territorio palestinese. Basta volerlo. Lo volle Begin restituendo il Sinai a Sadat, lo fece Sharon, perché non avere ancora coraggio?
Il meglio della politica estera italiana è stata la “vocazione mediterranea”. Cosa ne è rimasto, visto che nel Mediterraneo, vedi la Libia, a dare le carte sono la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin?
La vocazione mediterranea dell’Italia è determinata dalla nostra geografia, prima ancora che dalla nostra storia, come ha scritto qualche anno fa il compianto Franco Cassano. Se vogliamo tornare a contare, dobbiamo decidere una strategia di lungo periodo per il Mediterraneo. L’interesse supremo dell’Italia è un Mediterraneo che nel medio periodo sia stabile, sicuro e in pace. Questo significa chiarire una domanda che nessuno finora ha affrontato con serietà: le dittature del Mediterraneo sono attori di stabilizzazione o sono regimi fragile e instabili, che con la loro politica estera aggressiva cercano di puntellarsi all’interno aumentando l’instabilità nella regione? L’insistenza sui casi Zaki e Regeni, sulla situazione di progressiva erosione delle libertà in Turchia deriva da questa visione: questi sono regimi che oggi generano instabilità intorno a sé e presto o tardi crolleranno. L’interesse dell’Italia sta nell’avere relazioni franche con questi regimi, e nel tessere rapporti anche con la società civile di questi paesi. Non sta nel dare loro un via libera, e nel farsi guidare nei rapporti con loro soprattutto dai nostri interessi commerciali. Sull’atteggiamento da tenere con loro dovremmo aprire un dibattito anche in Europa, soprattutto ora che i rapporti con la Francia sono così vivaci e fecondi. C’è poi la questione risorse energetiche: oggi sono fonte di tensioni, soprattutto con la Turchia, e sono il nostro tallone di Achille perché siamo un paese che è legato ai paesi fornitori di idrocarburi per le nostre necessità di approvvigionamento. Possiamo invece pensare ad avere un ruolo politico guida per arrivare a un assetto politico in cui le cui risorse siano sfruttate nell’interesse di tutti, o perlomeno in modo tale da non favorire troppo alcuni a spese di altri, e che diventino quindi la chiave per un nuovo equilibrio politico generale dell’area? Per quanto riguarda gli strumenti, dobbiamo anche qui essere onesti: non si fa politica estera senza risorse. Nel 1989 l’Italia investiva lo 0,42% del Pil in politiche di cooperazione. Oggi investiamo lo 0,24%. Non sorprendiamoci poi che la nostra influenza nel mondo diminuisca.
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