È la “bestia nera” di Benjamin Netanyahu. Ancor più del suo rivale diretto alle elezioni anticipate del 2 marzo 2020, il leader di Kahol Lavan (Blu-Bianco) Benny Gantz. Considerato il “bello” della politica israeliana, Yair Lapid, co-leader di Blu-Bianco, un passato da giornalista televisivo di successo, è destinato a ricoprire incarichi di primissimo piano nel futuro esecutivo israeliano se, come indicano i sondaggi di questi ultimi giorni, Blu-Bianco distanzierà il Likud di Netanyahu di 4 seggi, superando, con le forze che hanno sostenuto la candidatura di Gantz a premier, la fatidica soglia dei 61 voti, necessari per avere la maggioranza alla Knesset, il Parlamento dello Stato ebraico. «Tenete i vostri bambini lontani dalla tv, ci saranno nuove elezioni e saranno un festival di odio, violenza e disgusto» ha detto subito dopo il fallimento delle trattative per il nuovo governo e la convocazione, al quel punto inevitabile, di nuove elezioni anticipate, le terze in nemmeno un anno.

I fedelissimi di Netanyahu le hanno dato del «piromane», imputandole di essere stato decisivo nell’impedire la formazione di un esecutivo Blu-Bianco-Likud. Come risponde a queste accuse? Piromane è un primo ministro che per interessi personali sta costringendo Israele ad una nuova campagna elettorale che si preannuncia ancora più velenosa di quelle che l’hanno preceduta. Non si tratta più d destra, di centro, di sinistra: oggi Israele è alle prese con una emergenza democratica determinata da un primo ministro che per difendere i propri interessi personali non si è fatto scrupolo di aizzare la piazza evocando un inesistente “golpe legale” di cui si sarebbe fatto strumento un magistrato di specchiate capacità e indipendenza, il procuratore generale d’Israele, Amichai Menderblit. Quanto poi all’accusa di essere stato il sabotatore di un governo Blu-Bianco-Likud, mi limito a dire che una delle condizioni poste da Netanyahu per realizzarlo, era un impegno a garantirne l’impunità. Io non ho mai creduto che la magistratura possa e debba sostituirsi alla politica nell’orientare il corso politico di un Paese, ma con la stessa nettezza aggiungo che un politico non può ritenersi al di sopra della legge perché svolge un ruolo di primo piano nella guida d’Israele. Per quanto mi riguarda, ho sempre cercato di non assumere posizioni manichee in politica. In passato ho fatto parte di governi guidati da Netanyahu, e gli ho riconosciuto di aver fatto cose positive per il Paese. Oggi, però, le cose sono cambiate, e quando non mi sono trovato più in sintonia con le sue posizioni, non ho ordito complotti, non ho guidato congiure, mi sono dimesso da ministro delle Finanze  e condotto la mia battaglia politica alla luce del sole. Per me, Benjamin Netanyahu è un avversario e non un nemico contro cui imbastire campagne di odio. E non è una mera differenza semantica.

Il 26 dicembre, il Likud va ad elezioni primarie per scegliere il leader alle elezioni di marzo. A contendergli la leadership è l’ex ministro degli Interni, Gideon Saar. Confessi: lei fa il tifo per quest’ultimo?
Assolutamente no. L’intrusione nella vita interna di un partito, qualunque esso sia, la giudico non solo politicamente sbagliata, ma eticamente riprovevole. Io non faccio il tifo, ma prendo atto che per la prima volta da oltre un decennio a questa parte, il Likud non è più il feudo di “King Bibi”, ma al suo interno si è aperto un dibattito importante, e sono emerse personalità, non mi riferisco solo a Saar, che hanno apertamente contestato l’attacco frontale del primo ministro alla magistratura, il suo gridare al golpe e, più in generale, una parte, si vedrà quanto grande, del Likud non sembra voler seguire Netanyahu nella sua deriva estremista. Quella che emerge è una destra moderata, che intende contribuire alla stabilità del Paese con un governo inclusivo, unitario, liberale, che non sia condizionato dalle forze più estremiste. Vedremo cosa accadrà il 26 dicembre. Di certo, questo è l’impegno che caratterizzerà la nostra campagna elettorale.

Uno dei temi centrali in ogni campagna elettorale in Israele è quello della sicurezza. Nei giorni in cui su Israele piovevano centinaia di missili sparati dai miliziani palestinesi dalla Striscia di Gaza, Gantz ha criticato Netanyahu per aver trattato una tregua con Hamas. Volete essere più falchi del “falco” Netanyahu?
Lasciamo perdere queste metafore ornitologiche. Non si tratta di essere falchi o colombe, ma di avere una chiara strategia sulla sicurezza d’Israele, dei suoi cittadini. Hamas non è parte della soluzione del problema, Hamas è il problema. E non vale sostenere, come fuori dall’ufficialità fanno stretti collaboratori di Netanyahu, che infliggere un colpo definitivo ad Hamas, finirebbe per fare il gioco di gruppi ancora più estremisti e minacciosi, come l’Isis. A Gaza, Hamas è quello che in Libano è Hezbollah: le propaggini armate dell’Iran ai confini Nord e Sud d’Israele. Quanto al problema palestinese, vale quanto scritto nella nostra piattaforma elettorale: se andremo al Governo, avvieremo una conferma regionale – con gli Stati arabi desiderosi di stabilità ed intensificheremo il processo di separazione dai palestinesi, pur riaffermando il nostro impegno irrinunciabile a difendere le necessità di sicurezza di Israele e la libertà di manovra delle nostre forze armate. Per essere chiari: non ci sarà un altro disimpegno (il riferimento è al ritiro unilaterale condotto da Israele a Gaza nel 2005, ndr). Ogni decisione diplomatica di portata storica necessiterà o una maggioranza speciale alla Knesset oppure un referendum. Detto questo, aggiungo subito che a dividerci dalla destra impersonata da Netanyahu è la visione del futuro d’Israele, sono le politiche sociali da portare avanti, il rafforzamento degli investimenti nei settori strategici della nostra economia, nello sviluppo delle sturt up, nell’innovazione tecnologica, nella ricerca. Lavoriamo ad un piano straordinario per agevolare l’acquisto di casa per giovani coppie, cercando di pensare in positivo, di guardare al futuro e non restare ostaggio di un passato che va archiviato”.

C’è una parola -chiave nella sua idea di politica?
Direi coerenza. Essere coerenti non significa non prestarsi a compromessi, la politica, se non vuole ridursi ad una sterile testimonianza ‘purista’, impone compromessi, soprattutto quando fai parte di una coalizione di governo. Ma sulle questioni fondamentali, sulla nettezza e la trasparenza dei comportamenti, la coerenza è un valore non negoziabile, è quello che dà o toglie credibilità. Nell’ultima campagna elettorale, avevo sostenuto, in totale sintonia con Benny (Gantz) che non avremo partecipato ad un governo con un primo ministro accusato di gravi reati – abuso d’ufficio, corruzione etc. -consumati nello svolgimento delle sue funzioni. Si può essere d’accordo o no, ma era un impegno che ci eravamo assunti in campagna elettorale, davanti al Paese. Coerenza vuol dire mantenere gli impegni.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.