«Israele rischia di restare prigioniera di un passato fatto di divisione e di odio. Quel passato che non passa ha il volto di Benjamin Netanyahu».
A sostenerlo, è Noa Rothman, la nipote del premier laburista Yitzhak Rabin assassinato la notte del 4 novembre 1995 da un giovane estremista di destra, Yigal Amir, al termine di una imponente manifestazione per la pace a Tel Aviv. «È importante – dice a Il Riformista – far prevalere le ragioni che uniscono il fronte democratico e progressista. Solo così è possibile sperare nel cambiamento e nella fine dell’ ”era” Netanyahu. Dividerci sarebbe il più grande regalo fatto alle destre. Spero che Benny Gantz (il leader di Blu Bianco, il più accreditato sfidante di Netanyahu, ndr) non commetta questo errore».

Il 2 marzo Israele torna al voto, per la terza volta in meno di un anno. La campagna elettorale che sta per concludersi è stata caratterizzata da colpi bassi e da una personalizzazione esasperata…
Purtroppo è così. Sull’odio non si costruisce nulla di buono, ma si ipoteca il futuro delle giovani generazioni. Quella che dobbiamo condurre è una battaglia culturale, prim’ancora che politica. Questa destra agita il tema della sicurezza per alimentare paure e un clima di perenne emergenza. Quella che la ispira, è l’idea di un Paese in trincea, sempre alle prese con un Nemico, sia esterno che interno. Ma il sionismo non è stato mai questo…

E cosa è stato?
Vede, i fondatori dello Stato d’Israele erano animati da una concezione aperta, inclusiva, dello stesso ebraismo e il loro sogno era quello di far vivere un Paese “normale”, che non aveva missioni divine, da popolo eletto, da dover condurre né territori da conquistare in nome di “Eretz Israel”, la sacra Terra d’Israele. Mio nonno, Yitzhak Rabin ha trascorso gran parte della sua vita a combattere i nemici d’Israele: alla storia è passata una foto, che conservo gelosamente, di lui e Moshe Dayan al Muro del Pianto, dopo la vittoria nella Guerra dei Sei giorni. Ma quella guerra, nella visione di coloro che la combatterono veramente, era comunque una guerra di difesa, che non aveva nulla di mistico: una narrazione che invece fu portata avanti dalla destra oltranzista. L’Israele di Yitzhak Rabin era un Paese orgoglioso dei suoi successi in campo economico, dell’innovazione tecnologica, oltre che fiero di Tsahal, il suo esercito. Ma mio nonno era anche consapevole che la sicurezza d’Israele non può reggersi sempre e solo sulla forza militare, e che la pace comporta anche il riconoscimento dell’altro da sé, in questo caso dei Palestinesi, e necessita di compromessi. E la pace la si fa con il nemico. Per lui, mi creda, non fu facile, stringere la mano a Yasser Arafat, quel giorno di settembre del 1993 alla Casa Bianca, davanti agli occhi di tutto il mondo e, quello che per lui contava sopra di ogni altra cosa, agli occhi del popolo d’Israele. No, non fu affatto facile, ma lo fece per dimostrare che il dialogo era possibile, e che la più grande vittoria che Israele avrebbe potuto conquistare era quella di una pace nella sicurezza. Per averci provato, è stato accusato dalla destra di essere un traditore, che aveva svenduto Israele ai terroristi di Arafat. Forse Yigal Amir (il giovane estremista di destra che assassinò Rabin, ndr) ha agito da solo, ma una cosa è certa: in molti hanno ideologicamente armato la sua mano, e alcuni hanno anche provato a giustificare, se non addirittura ad esaltare, il suo gesto criminale. L’odio è un virus letale, che può portare ad uccidere una persona o a distruggere le fondamenta di una convivenza civile tra cittadini dello stesso Paese. Ma a questa deriva io non mi arrendo, né la ritengo iscritta in un destino ineluttabile per il Paese che amo.

Le fa davvero così paura la destra del suo Paese?
Sì, mi fa paura. Per quello che è diventata, qualcosa di altro rispetto a ciò che per decenni il Likud era stato: una forza conservatrice, certo, ma che non aveva mai sposato le posizioni più estreme, avventuriste, che erano proprie di frange minoritarie di una destra estrema. Pur di restare al potere, con un cinismo senza eguali, Netanyahu ha radicalizzato le posizioni del suo partito, alimentando un clima di odio, proclamando che in caso di vittoria avrebbe annesso parte della Cisgiordania occupata, dando un colpo mortale ad ogni residua possibilità di rilanciare un processo di pace. La “red line” dell’irresponsabilità l’ha superata quando è arrivato ad evocare la sollevazione della piazza contro un inesistente “golpe legale” del quale si sarebbe fatto strumento una persona per bene e un giudice di specchiata onestà intellettuale e indipendenza, qual è il procuratore generale d’Israele, Amichai Mandelblit. Questo è un attacco allo stato di diritto, condotto da un politico che pur di non sottoporsi, come ogni cittadino, al giudizio di un tribunale, tiene in ostaggio un Paese, ha imposto nuove elezioni e rivendica impunità davanti alla Legge. Una cosa del genere non si era mai vista. Israele rivendica, giustamente, di essere l’unica vera democrazia in Medio Oriente. Lo è non perché si vota, ma perché esiste una magistratura indipendente, una stampa indipendente. Oggi il grande pericolo per Israele viene dall’interno, da un politico che non ha il senso delle istituzioni e del bene nazionale.

Per anni, sua nonna, Leah Rabin, la moglie di Yitzhak, si rifiutò di stringere la mano a Netanyahu. Già malata (Leah è morta il 12 novembre del 2000 per un tumore ai polmoni), alla fine quel gesto lo compì. Il tempo lenisce il dolore?
No, quando il dolore è così forte, straziante, il tempo non fa da anestetizzante né cancella la memoria di quell’atto che non ha stravolto la vita di una famiglia ma ha cambiato la storia d’Israele e del Medio Oriente. Quello di mia nonna fu un gesto che non equivaleva a un perdono ma che era un tributo alla memoria di suo marito, di mio nonno, del primo ministro d’Israele che aveva provato a far vincere le ragioni della speranza su quelle dell’odio. Ma questo Netanyahu non l’ha compreso.

Yitzhak Rabin fu ucciso per aver negoziato e sottoscritto accordi di pace con l’Olp di Yasser Arafat. Si dice che la storia non si fa con i se e con i ma…Ma se Yitzhak Rabin fosse rimasto in vita…
È vero, la storia non si fa con i se e con i ma. Ma in tutti i grandi eventi della storia la soggettività di un capo di Governo o di Stato, di un leader politico, si è spesso rivelata decisiva, nel bene e nel male. Quel che so, è che mio nonno soleva ripetere che bisogna negoziare la pace come se non ci fosse il terrorismo, e combattere il terrorismo come se non vi fosse un negoziato di pace. Non erano parole ad effetto, ma la linea di condotta che ispirò gli accordi di Washington. Mai avrebbe fatto qualcosa, concesso qualcosa che avrebbe potuto mettere a rischio la sicurezza d’Israele. Mai. Ma nel tempo che ebbe per arrivare a quegli accordi, ebbe modo di conoscere meglio il nemico di sempre, Yasser Arafat. Non divennero amici, questo no, ma impararono a rispettarsi vicendevolmente e, soprattutto, a cercare un compromesso che fosse un incontro a metà strada tra le aspirazioni dei loro popoli. Avevano imparato l’importanza dell’ascolto, del fare i conti con le ragioni dell’altro. Solo così la pace non resterà un sogno irrealizzabile.

Gantz ha affermato che se dovesse essere lui il vincitore, non formerà un governo con i partiti arabi della Joint List.
Ho apprezzato il Gantz che si poneva come “unificatore” di un Paese che la destra ha lacerato. Spero che non tradisca se stesso. Israele ha bisogno di voltare pagina e trovare una identità condivisa da tutti i suoi cittadini, che non devono essere discriminati in base alla loro origine. Una democrazia si può dire compiuta quando tutela i diritti delle minoranze in ogni ambito della vita sociale e politica. Abbiamo bisogno di ponti e non di muri.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.