Il soldato più decorato d’Israele si prepara a combattere la battaglia decisiva, questa volta politica: contribuire a sconfiggere Benjamin Bibi Netanyahu nelle elezioni anticipate del 2 marzo 2020, le terze in nemmeno un anno. Ehud Barak, 77 anni, è stato l’ultimo politico, allora era il leader dei laburisti, ad aver sconfitto alle elezioni il primo ministro più longevo nella storia d’Israele. Alle elezioni del 17 settembre 2019, Barak ha dato vita alla lista progressista Campo Democratico, conquistando 5 seggi alla Knesset. Ma l’influenza dell’ex primo ministro ed ex capo di stato maggiore di Tsahal (l’esercito dello Stato ebraico) nella vita pubblica d’Israele, per i suoi trascorsi politici e militari, va ben al di là dei seggi parlamentari acquisiti.

Per la terza volta in meno di un anno, Israele torna alle urne. Di chi è la responsabilità?
Non credo che vi siano dubbi in proposito: la responsabilità è tutta dell’uomo che ha trasformato le elezioni di aprile e di settembre in un referendum su se stesso: Benjamin Netanyahu.

Ma nella politica d’oggi, la personalizzazione è ormai un dato di fatto, un segno dei tempi. Il partito è il suo leader.
Questo è vero, ogni partito ha bisogno di un leader che riesca a conquistare l’elettorato entrando in empatia con esso. Pensare di poter fare a meno di un leader carismatico, forte nella comunicazione, capace di imporre la propria agenda politica, vuol dire avere una visione anacronistica della politica. Ma il problema non è questo, non sta nell’eccesso di leaderismo l’emergenza democratica che Israele sta vivendo…

Da cosa nasce questa emergenza?
Da un primo ministro che si ritiene al di sopra della Legge, che fa minacciare gli inquirenti che indagano su di lui, che non esita a evocare un “golpe legale” perché il procuratore generale d’Israele ha “osato” incriminarlo per gravi reati di corruzione commessi nello svolgimento delle sue funzioni, condizionando la formazione di un esecutivo con lui dentro, ad una legge che gli garantisse non l’immunità dalle accuse – da lui definita “una pietra angolare della democrazia” – ma addirittura l’impunità. Agendo in questo modo, Netanyahu ha alimentato una campagna di odio che rischia di avvelenare la vita politica d’Israele e corrodere le basi stesse di una convivenza civile. So bene, per esperienza personale, che è molto dura staccare la spina e a fronte di un insuccesso decidere di passare la mano, senza che questo voglia dire ritirarsi per sempre dalla vita politica. In questo ci vuole coraggio, quel coraggio che manca a Benjamin Netanyahu.

La sua è un’accusa molto pesante.
Pesante non è la mia accusa, pesante è il clima che Netanyahu ha instaurato con la sua condotta. Vede, in Israele la politica non si è mai fatta con il fioretto, ma con la spada… La nostra storia politica è piena di scontri aspri, a volte durissimi, ma sempre attorno a questioni che rispondevano all’interesse nazionale, al futuro d’Israele: la sicurezza, la lotta al terrorismo, la crescita economica, il benessere sociale… Oggi, invece, tutta la discussione ruota attorno ai destini di una singola persona, come se da questo dipendesse il futuro del Paese. Netanyahu ha “privatizzato” la politica israeliana. Nessuno dei “Grandi d’Israele”, è mai giunto a tanto.

Netanyahu ha stravinto le primarie nel Likud, svoltesi il 26 dicembre, sbaragliando il suo avversario, l’ex ministro degli Interni Gideon Sa’ar. Il partito è con lui.
Non avevo dubbi in proposito. Come poteva essere altrimenti, visto che negli ultimi dieci anni Netanyahu ha fatto del Likud il suo regno, decidendo o distruggendo carriere politiche. Ma a votare è stato meno del 50% degli iscritti al partito, quelli che la potente macchina organizzativa di Netanyahu ha saputo mobilitare. Ma le elezioni sono tutt’altra cosa, e questo Netanyahu lo sa bene.

Lei è stato l’ultimo leader politico che ha battuto Netanyahu in una elezione. Quali consigli si sente di dare a colui che tutti i sondaggi confermano essere il principale antagonista di Netanyahu alla guida d’Israele: Benny Gantz, il capo del partito centrista Kahol Lavan (Blu-Bianco).
Più che di consigli, parlerei di suggerimenti. Anzitutto, non deve farsi trascinare nella rissa personale. Su questo terreno, Netanyahu non teme rivali. E poi non deve mostrarsi sulla difensiva. Gantz, che ho imparato a stimare già quando era capo di stato maggiore dell’Esercito, deve parlare agli israeliani il linguaggio della verità e della speranza, mostrandosi come un leader che non solo vuole ma che sa unire, includere, che intende investire sul futuro.

Netanyahu ha comunque mantenuto unito il variegato fronte delle destre.
Una unità più di facciata che di sostanza, e che comunque non l’ha portato ad avere i numeri necessari per formare il nuovo Governo. Per tenere unite le destre, quelle ultranazionaliste, i partiti religiosi in competizione tra loro per accaparrarsi i fondi statali per le loro “yeshivot” (le scuole talmudiche, ndr), Netanyahu ha dovuto promettere cose che sa bene di non poter mantenere. Gantz non deve commettere lo stesso errore. Deve unire nella chiarezza, su un programma di governo per un cambiamento realizzabile. So bene che non è una impresa facile, ma la storia insegna che quando a prevalere sono gli interessi di parte, le ambizioni personali, la sconfitta è sicura. Non si tratta di cancellare le differenze, non dobbiamo costruire nel campo democratico un partito unico. Ciò che voglio dire, e questo sarà il mio impegno in campagna elettorale, è che a prevalere deve essere ciò che ci unisce su ciò che ci differenzia. Non dobbiamo presentare un libro dei sogni, ma un programma fondamentale, condiviso, su tre, quattro grandi priorità: la giustizia sociale, una pace nella sicurezza, la ricerca e l’istruzione, pensando soprattutto al futuro delle giovani generazioni. E su questo programma cercare una maggioranza più ampia possibile.

Aperta anche alla Joint List, la lista dei partiti arabi?
Coinvolgerli nel governo d’Israele vuol dire responsabilizzarli. Includere significa anche questo.

Un politico che sembra essere diventato l’ago della bilancia nella determinazione di una maggioranza di governo, è Avigdor Lieberman, il leader di Israel Beiteinu (destra nazionalista). Nel corso delle trattative fallite, che hanno spianato la strada a nuove elezioni, lei ha avuto parole molto dure nei confronti dell’ex ministro della Difesa. Conferma quei giudizi?
Assolutamente sì. Lieberman non è un liberale, non lo è stato e mai lo sarà. È l’opposto. Quanto poi ai risultati che ha ottenuto da ministro degli Esteri o della Difesa, beh, è meglio stendere un velo pietoso.

Lei predica unità. Ma nelle elezioni del 17 settembre, le forze di sinistra si sono divise, presentando due liste.
È un errore da non ripetere, perché il rischio di marginalizzazione è grande. Siamo a un passaggio cruciale nella vita politica d’Israele e, in essa, della sinistra. Per questo come Campo Democratico (la lista di cui fa parte anche il Meretz, la sinistra pacifista, ndr) abbiamo proposto al partito laburista di presentarci uniti alle elezioni del 2 marzo. Non farlo, sarebbe una sciagura.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.