È la vita. Passati i novant’anni può sembrare che la non mortalità si sia manifestata. Per la prima volta, stando alle cronache. È l’arte. Quando è stata grande, prepotente, premiata, popolare e di successo, continuerà a vivere. Diventata cristallo, è destinata a restare. E l’arte cinematografica, la più simile alla vita che filma e racconta, è il migliore fra gli elisir. Vale, eccome, per l’opera di Lina Wertmuller, la grande regista scomparsa ieri a novantatré anni, nella sua Roma. E nella capitale era nata, il 14 agosto del 1928, da una famiglia della borghesia benestante, con gocce di sangue nobile di discendenza svizzera. Gli occhialoni bianchi, distintivi e iconici, li avrebbe indossati presto. Nel 2015 il giovane regista Valerio Ruiz è partito proprio da lì, per il documentario biografico Dietro gli occhiali bianchi, che con affetto ha dedicato a lei e a chi ha amato il suo cinema.

Tanti. Più il pubblico della critica? Falso. La lista dei riconoscimenti, molti alla carriera, dimostra il contrario. Allora, è vero l’opposto? Falso anche questo. Lina Wertmuller ha sempre avuto feeling con gli spettatori, di cinema e tv. I clamorosi successi forse non sono molti, ma fondamentali (Gian Burrasca, Mimì metallurgico, Film d’amore e d’anarchia, Travolti da un insolito destino, Pasqualino Settebellezze…). La coerenza del suo cinema, il suo graffio di autrice insieme profonda e popolare, è inattaccabile e imprescindibile. Anche quando l’esito, artistico e commerciale, non è di prima grandezza. Metalmeccanico e parrucchiera, in un turbine di sesso e politica, con Veronica Pivetti e Tullio Solenghi, nel 1996 sembrava essere uscito fuori tempo massimo dagli anni Settanta. Che, per materiale socioculturale, per Wertmuller rappresentano il gran decennio. Se nei primi Sessanta perde il treno dei signori colleghi maschi, che debuttano (come Bellocchio e Olmi, che le produce il suo film d’esordio, dall’inedito sapore neorealista: I basilischi del 1963, premiato a Locarno) o si consacrano (è stata aiuto regista di Federico Fellini, sui set di La dolce vita e 8 e mezzo), i Settanta le sono davvero congeniali.

Si trova benissimo con la coppia Giancarlo Giannini–Mariangela Melato. Dirigendo loro e altri colleghi (anche internazionali, come Harvey Keitel e Angela Molina in Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti del 1985), decide di mettere alla prova la memoria dei più incalliti cinefili, con titoli dalla lunghezza monstre. I già citati, ma stavolta (se lo meritano) in tutta la loro interezza titolistica: Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia – Ovvero Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza… (1973), Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. E ancora, La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia (1978), Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano motivi politici (1978). Alla regista, interessano i conflitti: Nord vs Sud (Mimì), ricca borghesia vs proletariato (Travolti da un insolito destino. Epocale, al punto da spingere Madonna a farne un brutto remake quasi omonimo, Travolti dal destino nel 2002). E ama fare, a suo modo, i conti con la Storia non da molto passata e con il suo strascico: Film d’amore d’anarchia, che regala a Giannini il meritato premio a Cannes, come migliore attore.

Seguendo gli stessi principi di quel successone, e affidandosi al medesimo protagonista, tre anni dopo Wertmuller alza la posta. Pasqualino Settebellezze (1976) è un ottimo film. Ma, soprattutto, scrive statistiche immense per il cinema italiano nel mondo. Giannini ottiene la nomination all’Oscar, come migliore protagonista. Vince la statuetta, postuma, Peter Finch per Quinto potere (fra i candidati, anche De Niro in Taxi Driver e Stallone in Rocky). Il film è nominato come migliore pellicola straniera (e ancora ci si domanda come il dimenticato Bianco e nero a colori di Jean-Jacques Annaud, abbia potuto fare meglio). Ma è Wertmuller a fare l’impensabile. Due candidature: migliore sceneggiatura originale e, udite udite, migliore regia. Mai nessuna donna ci era riuscita prima. La seconda dopo di lei sarebbe stata Jane Campion, nel 1994, per Lezioni di piano. L’Oscar onorario, che doverosamente l’Academy le assegna nel 2020 (una delle ultimi luci dello spettacolo internazionale, prima dello scoppio della pandemia) non vale come risarcimento e non cancella la enormità di quanto successo più di quarant’anni prima.

L’ultimo film, nel 2004, è stato il dimenticabile (ma il titolo, ancora una volta è divertente) Pomodori ripieni e pesci in faccia con Sophia Loren (altra attrice di riferimento. Ma nella professione le due non si sono date il meglio, l’una all’altra). E in tv Mannaggia alla miseria, nel 2010, con Sergio Assisi e Gabriella Pession. Come passa il tempo, come cambiano gli attori. Proprio in televisione, Wertmuller ebbe il suo primo trionfale successo. Il giornalino di Gian Burrasca, da Vamba, con Rita Pavone. Gioiosissima preistoria. In quella occasione, per una giovane mamma Rai, la regista finì per bene adattarsi a qualcosa che negli anni non sarebbe più stato congeniale alla sua poetica. Da cui, almeno in parte, si discostano due capolavori della avanzata maturità. Il delicatissimo Io speriamo che me la cavo (1992), dal libro di Marcello D’Orta, con un prezioso Paolo Villaggio maestro elementare. E, divertentissimo, il doppiaggio italiano della nonna di Mulan, nell’omonimo cartoon Disney del 1998.

La vita privata è stata il più possibile riservata e di moltissimo amore. Per la figlia adottiva Maria Zulima ed Enrico Job. Marito e grande scenografo, anche dei film della moglie, scomparso nel 2008. Lina Wertmuller è scomparsa ieri, ultranovantenne, quando sembrava essere scesa a patti con l’immortalità. Resterà, immortale, tutta la sua opera e il suo cinema. In ricordo di una donna di talento, pioniera senza ribadirlo. Di esempio per tanti e, soprattutto, libera.