Nessun afro-americano ha inciso più a fondo di lui sul dna profondo dei neri d’America. Forse Martin Luther King, con le sue marce e la sua instancabile campagna per i diritti civili, ha contribuito più di lui a cambiare gli Usa delle Jim Crow Laws, del razzismo apertamente segregazionista. Probabilmente Louis Armstrong ha rimodellato più radicalmente l’intera cultura non solo musicale americana. Però Malcolm Little, ribattezzatosi Malik el-Shabazz, universalmente noto come Malcolm X, ha rivoluzionato la mente e l’anima degli afro-americani, ha modificato alla radice il modo con cui guardano se stessi, il potere bianco, l’America, il proprio posto negli Usa e nel mondo.

Quando lo uccisero, il 21 febbraio 1965, mentre presentava nella Audubon Ballroom a Manhattan la sua nuova organizzazione, la Oaau, Organization for Afro-American Unity, fondata dopo aver lasciato la Nazione dell’Islam, Malcolm aveva 40 anni. In 12 anni, dal 1952 al 1964, aveva reso in veste di Primo Oratore i Muslims, la piccola setta guidata da Elijah Muhammad, una potenza nei ghetti di tutto il Paese. La rottura con Muhammad non era stata pacifica. Negli ultimi mesi Malcolm era stato minacciato più volte di morte. Gli avevano incendiato casa, avevano tentato di organizzare un attentato facendolo saltare in aria in macchina, Sul giornale dei Muslims, Muhammad Speaks, era stato bollato da Louis X, uno dei massimi dirigenti della setta destinato a diventarne il capo col nome di Louis Farrakhan, come “uomo che merita di morire”. La foto poi diventata famosissima di Malcolm alla finestra col mitra in mano fu pubblicata dalla rivista Ebony proprio in quei mesi, quando lo stesso Malcolm profetizzava il suo imminente assassinio.

A sparargli, mentre parlava dal palco, furono tre persone ma il gruppo di fuoco ne contava uno in più. Per l’omicidio furono arrestati e condannati tre aderenti alla setta: uno, Talmadge Hayer, ammise le proprie responsabilità ma tentò di scagionare gli altri due. Condannati lo stesso sono stati riconosciuti innocenti appena pochi giorni fa. L’attentato mortale non è mai stato del tutto chiarito. Farrakhan ha ammesso di aver provocato l’uccisione di Malcolm X ma solo con le sue parole, senza armare i killer. Il principale aiutante di Muhammad, John Ali, era probabilmente un agente dell’Fbi. Hoover considerava l’ex Primo Oratore un pericolo pubblico e avrebbe pochi anni dopo adoperato a man bassa la tattica del mettere i militanti neri gli uni contro gli altri per distruggere il Black Panther Party. Di certo, nonostante il pericolo fosse conclamato, non ci furono controlli di sorta alla Audubon Ballroom. I killer entrarono con le armi in tasca senza problemi.

Non solo la morte ma anche la vita di Malcolm X è in un certo senso un mistero. La sua Autobiografia campeggia da decenni nelle librerie dei di tutto il mondo, forse il più longevo fra i “testi sacri” del ‘68. Ma quel libro uscì postumo, scritto a quattro mani con Alex Haley, il futuro autore di Radici, che era su posizioni politiche liberal diverse da quelle del leader che firmava il volume ma senza aver avuto il tempo di rivedere e correggere la stesura finale. Lo stesso Malcolm, che non aveva mai pubblicato niente, intendeva fare della storia della sua vita un testo politico e propagandistico, dunque probabilmente manipolando quando necessario i fatti. Nel 2011 Manning Marable, uno dei principali docenti di Storia e intellettuali afro-americani, pubblicò, subito prima di morire, una biografia “definitiva” titolata significativamente Malcolm X. A Life of Reinvention, alludendo al fatto che in numerosi aspetti Malcolm aveva “reinventato” la propria vita, esagerando il peso della giovanile esperienza criminale, glissando sulla realtà del suo matrimonio con Betty Shabazz Sanders, sposata nel 1958, tacendo particolari come la relazione omosessuale, per soldi e non per passione, con un ricco bianco. Ma la ricostruzione di Marable è poi stata a sua volta confutata e smentita non solo dalla figlia di Malcolm e Betty ma da una serie di militanti, studiosi e conoscenti di Malcolm X in un volume collettivo che sin dal titolo si contrappone apertamente all’opera di Marable: A Lie of Reinvention.

Dal punto di vista storico la disputa è importante. Da quello politico e culturale no. La presa saldissima di Malcolm X sulla mentalità dei neri americani si deve proprio al fatto che, più di chiunque altro, nella sua breve esistenza ha davvero vissuto molte vite, riassumendo l’esperienza degli afro-americani nel XX secolo in quasi i tutti i suoi aspetti, e sempre superandone i confini. Malcolm Little figlio di Earl, predicatore e seguace di Marcus Garvey, il profeta giamaicano del ritorno all’Africa, conosce il razzismo ancora in culla, con la famiglia costretta a fuggire dalla persecuzione del Ku Klux Klan solo per finire di nuovo nel mirino razzista della Black Legion anche nel nord degli Usa, nel Michigan, dove Earl Little muore in un incidente stradale molto dubbio, tanto da far sospettare l’omicidio. C’è poi l’adolescente senza famiglia come tanti coetanei, con una madre ridotta alla fame perché l’assicurazione rifiuta di pagare considerando la morte di Earl “un suicidio” che finisce in manicomio per 24 anni, lasciando i figli soli, cresciuti da genitori adottivi.

Il ragazzo senza più famiglia si reincarna in Detroit Red, “il Rosso di Detroit”, un provinciale con la pelle chiara che arriva alla Mela, ad Harlem, con i capelli stirati e lo zoot suit, l’abito di moda a metà ‘900 tra neri e latini, di due taglie più grande del dovuto: ladro, drogato, pappone. Un personaggio che pare uscito di peso dal gangsta rap che sarebbe arrivato quattro decenni più tardi. Poi “Satana”, il detenuto indomato e pieno d’odio che in carcere scopre l’Islam e l’orgoglio nero, si converte, esce di galera come Malik el-Shabazz, diventa il più brilante fra i predicatori Muslim e il più rabbioso e deciso tra i leader neri: quello che non vuole la parità di diritti ma la separazione, non chiede un posto alla tavola dei bianchi ma rivendica l’orgoglio nero, le radici africane, la differenza in tutto e per tutto dall’America bianca. L’Islam di Muhammad ha poco a che vedere con il vero Islam. La sua è una setta razzista che non disdegna rapporti con il Klan, in nome del comune rifiuto della commistione razziale. Malcolm, il più lucido e politico tra i predicatori di Muhammad, è l’opposto e insieme l’alter ego di Luther King: non vuole essere considerato un americano come gli altri nonostante il colore della pelle ma un afro-americano incompatibile con l’America bianca. Il suo insegnamento riverbera nella famosa frase che costerà la corona di campione dei pesi massimi all’amico fraterno e discepolo Cassius Clay-Muhammad Alì, quando gli chiedono di combattere per la patria in Vietnam: «Nessun vietnamita mi ha mai chiamato Nigger».

Malcolm X è il superamento dei semplici diritti civili attraverso una rivendicazione orgogliosa della propria specificità razziale ma poi anche di quella dimensione venata di razzismo e pregiudizio. La rottura con Muhammad matura lentamente, prima per la scoperta della licenziosità del Maestro, opposta alla sua predicazione, poi per il rifiuto di difendersi “con ogni mezzo necessario” dalla violenza e dalla prepotenza della polizia e dei bianchi, ma sullo sfondo trapela e campeggia la necessità di andare oltre la dimensione della setta, di legare la lotta dei neri a quella dei popoli africani e del Terzo Mondo, di scoprire il vero Islam. Il casus belli arriva con l’uccisione di John Kennedy. Muhammad invia le sue condoglianze, ordina ai suoi predicatori il silenzio. Malcolm è drastico e tagliente: “Chickens Coming Home to Roost”, che in italiano tradurremmo più o meno con “I nodi vengono al pettine”. Muhammad gli proibisce di parlare in pubblico per 90 giorni. Il Primo Predicatore lascia i Muslim. Nel suo ultimo anno di vita Malcolm X si muove su un palcoscenico internazionale.

Va in pellegrinaggio alla Mecca, abbraccia la vere fede mussulmana, poi gira tutta l’Africa. Incontra l’egiziano Nasser, l’algerino Ben Bella, tutti i leader neri dei Paesi africani emergenti. Fonda la Oaau, si trasforma in uno dei grandi rivoluzionari del mondo nella grande sollevazione anticoloniale degli anni 60. Quando i sicari della Nazione dell’Islam lo finirono Malcolm aveva appena raggiunto la piena maturità e sarebbe certamente andato oltre ma dire oggi dove sarebbe approdato, come prova a fare Haley inevitabilmente tirandolo dalla sua parte, è impossibile. Malcolm sapeva parlare alla sua gente perché ne condivideva l’esperienza in tutte le diverse e contraddittorie sfaccettature. Lo sapeva e sfruttava consapevolmente la cosa. Dunque probabilmente Marable almeno in parte ha ragione e anche nell’Autobiografia Malcolm X può aver calcato a volte i toni per allargare quei canali di comunicazione e condivisione che gli permettevano una comunicazione immediata con la sua gente. Ma se poteva farlo era proprio perché quella che un po’ “reinventava” era davvero la sua vita.