Ecco un anno, il 1965, in cui la Storia si raggomitolò come una molla e nessuno era davvero in grado di capire quanta e quale energia si stesse accumulando sotto il vulcano e come sarebbe venuta fuori e con quali terremoti. Al terremoto mancavano ancora tre anni, più o meno, e il mondo sembrava ancora banalmente sferico, stabile, diviso nei due poli americano e russo, con la destra e la sinistra ben opposte con alcuni margini grigi, ma le cose andavano, l’economia trottava, i cinema erano affollati, si fumava in sala e sullo schermo passavano decine di film astuti, commerciali e divertenti intessuti di allusioni sessuali grevi ma timorate di Dio.

Era l’epoca in cui andavano di moda le maggiorate fisiche come Gina Lollobrigida e Sophia Loren ed erano donne dai seni prorompenti, glutei da esposizione, vita da vespa e gambe lunghissime. Gli uomini si inondavano di dopobarba perché si radevano tutti e l’uso del deodorante era considerato ancora una americanata decadente. Nessuno osava dire “cazzo” in pubblico e i comunisti non erano meno pudichi dei cattolici e nelle famiglie giravano ancora molti ceffoni, l’educazione era autoritaria anche se ben servita nelle scuole specialmente pubbliche, esistevano ancora molti contadini che però si inurbavano a decine di migliaia e aspiravano ad entrare nelle fabbriche e poi a mandare i figli a scuola e all’università e si sentiva che il vecchio mondo era morto e che quello nuovo sembrava davvero attraente.

Dai paesi di lingua inglese arrivavano fiumi di musica, le canzoni dei Beatles e dei Rolling Stones furoreggiavano e da noi furoreggiava il genere melodico pieno di mamme che piangono, gondole sulla televisione e centrini ricamati in un’orgia eclettica che comprendeva orologi a cucù in stile arabo-svizzero oltre che frequenti abbondanti gondole veneziane, mentre declinavano i mobili Rinascimento con i suoi buffet e contro-buffet e specchiera, zampe di leone, e camere matrimoniali di quercia per coppie di stabilità sacramentale. L’America era in guerra, sia dentro sé stessa che fuori, nel lontano Vietnam dove adesso sbarcavano i primi tremila marines combattenti. I bombardamenti sulle foreste non servivano a nulla, il regime del Vietnam del Sud aveva ambizioni muscolari e il presidente Johnson con il suo Stato maggiore non aveva capito che di fronte all’armata americana non c’erano dei guerriglieri della foresta, ma uno degli eserciti convenzionali più forti del mondo, armato sia dalla Cina di Mao Zedong che dall’Unione Sovietica.

In Italia si svolgeva la storia minore e non eccitante della prima Repubblica con la scacchiera dei partiti di governo – la Democrazia Cristiana, i socialisti, i socialdemocratici e i repubblicani – e le due opposizioni con diversi ranghi: a sinistra il grande e potente Partito comunista con cui era d’obbligo un dialogo continuo, laborioso ed estenuante per battersi su una terreno di trattative e compensazioni perché il Pci si supponeva dovesse essere tenuto fuori dalla stanza dei bottoni a causa della guerra fredda. Tutti dialogavano e trattavano con i comunisti, la cui classe dirigente era osservata con preoccupazione e ammirazione dagli analisti occidentali che, tentavano di dialogare con i comunisti italiani, – più evoluti e laici – che con quelli francesi, meno flessibili mentre in quel partito si rilevavano tenui segnali di critica e di insofferenza nei confronti dell’Unione Sovietica.

Girava questa barzelletta: «L’Unità ha indetto un concorso a premi per i compagni più attivi. Primo premio: una settimana in Unione Sovietica. Secondo premio: due settimane in Unione Sovietica, Terzo premio…». Ma l’Urss era ancora considerata una potenza mondiale d’avanguardia e con tutti i difetti e – ammettiamolo – gli errori e i crimini del compagno Stalin era ancora la punta avanzata del più grande esperimento socialista. La corsa nello spazio era ancora un primato sovietico ma proprio nel 1965 gli americani si impegnarono e misero in orbita i loro astronauti che si muovevano nelle passeggiate spaziali spruzzando una specie di spray. Ma la guerra nel Vietnam stava diventando l’evento monstre da cui si generava tutta la comunicazione: musica, cinema, manifestazioni di protesta, cannabis. Gli americani che tornavano dal fronte vietnamita erano quasi tutti strafatti di marijuana e, seguendo l’esempio dei loro predecessori francesi, anche di oppio, eroina, Lsd.

Cominciavano le fughe verso il Canada per evitare la coscrizione e il Canada tornò a essere un nemico interno per il governo americano, così come lo era stato dai tempi della rivoluzione, perché aveva sempre protetto e ospitato i lealisti realisti, come era accaduto nella Vandea della Rivoluzione francese. Inoltre, gli americani erano profondamente offesi dal mancato aiuto degli inglesi che non avevano dimenticato il tradimento americano del 1956 quando il primo ministro Anthony Eden aveva invaso l’Egitto del rais Nasser per impedire la nazionalizzazione del canale di Suez. Il grande gelo fra i due popoli di lingua inglese continuava. L’America era isolata e al suo interno si stava combattendo una vera guerra civile: gli afroamericani, liberati dalla schiavitù con la guerra civile del secolo precedente, non avevano diritto di voto, né di sedere negli stessi autobus e usare le stesse scuole dei bianchi e adesso il governo federale faceva applicare l’integrazione con l’uso della Guardia Nazionale e dunque la turbolenta nazione non cessava, come non cessa oggi di stupirsi, indignarsi, scontrarsi.

Per il Vietnam partivano preferibilmente giovani neri, per lo più volontari alla ricerca di un lavoro e quello del soldato è un lavoro. Nel Vietnam avrebbero avuto non solo il battesimo del fuoco ma avrebbero imparato a costruire una nuova identità, quella del soldato americano nero che era comparso già nel 1918 con un corpo di volontari (i neri erano ritenuti inadatti alla disciplina militare e anche a praticare gli sport maggiori), poi durante la Seconda guerra mondiale con reggimenti e squadroni di aerei pilotati da neri e adesso in Vietnam sperimentavano la scomodità di sentirsi invasori che sottomettono, sentendosi a loro volta sottomessi. Malcolm X, il più geniale e colto intellettuale afroamericano, parlava come un dio mentre lo aspettava la morte, e il gigante Cassius Clay con il nome di Mohammad, metteva KO sia bianchi che neri quando la boxe era ancora un meraviglioso spettacolo. Migliaia di soldati dal nome italiano, i tanti Capoto, Rossi, Macrì, con tutti i cognomi in “ucci”” o “ini” dei toscani e quelli che finiscono per “O” di origine campana, combattevano e morivano a decine, come si può vedere dallo straziante Memorial del Vietnam a Washington in cui si cammina fra alte mura di marmo sulle quali sono intarsiati i nomi dei caduti uno dopo l’altro.

In Italia la mafia andava benissimo e faceva affari molto grassi mentre Tommaso Buscetta – che diventerà il primo grande pentito nelle mani di Giovanni Falcone che lo andò a recuperare in Brasile – si era rifatto la faccia da Indio in Messico sperando di sfuggire alla fazione che aveva sterminato tutta la sua parentela, facendosi chiamare Manuel Lopez Cadena. Il centro sinistra era diventato una formula di governo istituzionale e i socialisti perdevano mordente e voti, ma i rapporti con la Dc erano stabili perché quest’ultima aveva trovato la sua formula magica che ne spiegava l’enorme consenso: conteneva al suo interno un clone di ogni altro partito, ma in versione cattolica: c’era una gagliarda componente sindacale, i filocomunisti e i filofascisti, non molti veri liberali come Aldo Moro e Francesco Cossiga, ma aveva personaggi clamorosi come Amintore Fanfani, un professore accademico che era stato fascistissimo ma che ora rappresentava la sinistra dialogante: chiunque volesse dialogare con i socialisti o i comunisti, doveva passare sotto lo sguardo scrutatore di Fanfani. Giulio Andreotti era già il divo Giulio sornione e molto preso dalle frequentazioni mondane ed era storicamente il deputato più votato d’Italia perché, si diceva, tutte le monache hanno l’ordine di votare per lui, come se le suore fossero milioni.

L’Italia riceveva l’Oscar delle monete per la tenuta della nostra Lira e bisogna dire che il Paese faceva la sua porca figura sia nella produzione industriale e automobilistica, negli elettrodomestici e nell’editoria, nel cinema e nella musica e con la sua smodata, impertinente, indisciplinata e caciarona voglia di vivere. Allora come oggi, la retorica furoreggiava. Dopo il malore che aveva portato via dal Quirinale Antonio Segni, gli era succeduto il candidato delle sinistre Giuseppe Saragat, una volta odiatissimo per il suo anticomunismo che lo aveva portato alla scissione del 1948 a Palazzo Barberini, ma poi diventato l’incarnazione dell’antifascismo in esilio e anche della passione per il vino. Di lui si diceva che facesse l’alzabandiera mattutino con bianco, rosso e del Verdicchio e l’aneddotica lo dava sempre un po’ alticcio. E implacabile nell’invio di abbondanti telegrammi di congratulazioni, condoglianze, partecipazione, testimonianza, memoria o anche di compleanno.

I suoi telegrammi erano letti con voce compunta dagli speaker della Rai e quando Enzo Jannacci scrisse una delle sue canzoni più delicate e geniali, Giovanni telegrafista, girò voce – pensate che tempi e quale pudore – che probabilmente Jannacci come personaggio non aveva in mente il telegrafista Giovanni, ma l’altro telegrafista, Peppino, inquilino del Quirinale. Era un’Italia delicata e amabile, in cui con geniale effetto sorpresa uscì la rivista di fumetti Linus il cui primo numero andò in edicola lo stesso giorno di maggio in cui nacque mio figlio Corrado, che volle subito sapere che cosa Umberto Eco pensasse di Charlie Brown.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.