“Chi aveva tradito per primo se stesso e le sue radici?”. Con questa domanda Andrea Caterini, nel suo ultimo libro Ritorno in Italia (Vallecchi) somministra la formula, perfetta per umile intelligenza e sapienza mite, per accedere al viaggio dentro la parte più intima di alcuni luoghi italiani, attraversati in qualità di autore di programmi Rai sul territorio.

Il viaggio è un ritorno sopra la frattura profondamente italiana tra l’italiano e la nazione, tra la persona e la patria. In questo ritorno fisico, geografico e storico, se ne innesta un secondo che Caterini salda con sorprendente naturalezza al primo: quello al romanzo italiano del Novecento, cosicché ogni capitolo è abitato da un luogo, e le sue pagine abitate dalle pagine di un libro di riferimento, spesso recato con sé dall’autore come compagnia illuminante nel corso delle riprese televisive.

Accade quindi che per leggere l’Etna occorra osservare il Bufalino della Diceria dell’untore, che per intendere la Lucania soccorrano le pagine (e – meno utilmente però – i dipinti) di Carlo Levi, che per sfiorare la cifra di Napoli si debbano invocare la scrittura di un morto (Malaparte, La pelle) e la presenza viva nell’oralità (con un riverbero, comunque, di scrittura: Di questa vita menzognera) di “Pino” (aggiungiamo qui il cognome: Montesano). Perché il ritorno favorisca migliore conoscenza, perché funga da riconciliatore, è necessario munirsi di uno sguardo diverso, capace di riconoscere, di ogni cosa, la sua doppia vita: “Una visibile, a occhio nudo, l’altra nascosta allo sguardo. L’una, mostrandosi, protegge l’altra, che è il suo alimento. Ogni cosa vivente custodisce e segretamente difende le sue radici”.

Con questa consapevolezza Ritorno in Italia incrocia in mirabili tratti essenziali tre dimensioni: il punto di vista su un luogo (ossessivamente ravvicinato, come per l’Etna; capace di abbracciare un paesaggio, come in Lucania; dinamicissimo dinanzi a Napoli), la scrittura di classici del Novecento e l’incontro con le persone, impregnato, sempre, di forme intense di comunione, che si tratti della mano nervosa di una sconosciuta fotografa che ritrae l’Etna o della passeggiata ammaliata con Pino nei pressi del Museo Archeologico di Napoli. Il capitolo dedicato a quest’ultima è intitolato “Napoli è una menzogna”, e il titolo stesso costituisce una dedica alla tradizione di pensiero e letteratura che nel ‘900 ha riguardato la città.

Nel darci ragione della scelta di Malaparte, esagerato quanto lo è Napoli, Caterini tiene a precisare che “non parlo della Campania tutta e meno che mai dell’intero Regno Borbonico e delle sue peculiarità antropologiche, ma solo della città più italiana della Nazione e al contempo della più straniera; di questa città così diversa da tutto: insofferente, ironica, umanissima”. Tenendo a mente la direzione dello sguardo prescelta da Caterini nel guidarci nella pratica del ritorno, fisico e spirituale, arriveremo a comprendere che la derisione della vita e della morte (dunque, come insegna Pino, di noi stessi) è l’antidoto più sincero al peso del dolore che grava su Napoli: per sopravvivere con dignità, menzogna e verità si sono sposate in un vincolo millenario infrangibile.