È la claustrofobica immagine dell’ascensore sociale (guasto) di un paese
Ci pagano il tempo la metà di quanto paghiamo per riprendercelo: il paradosso dell’insalata e la consapevolezza del nostro valore

Nella vita, qualcuno ce lo ha chiesto: “Sai quanto vale il tuo tempo?”. Tutti rispondiamo di sì. Dentro di noi, però, c’è sempre un secondo di esitazione. Un attimo di silenzio che tradisce la nostra incertezza. Osservando alcuni gesti quotidiani si capisce che, forse, il valore del nostro tempo non lo conosciamo davvero. Proviamo a scoprirlo insieme. Per prima cosa, calcoliamo a quanto vendiamo il nostro tempo. In un anno lavoriamo circa 100mila minuti. Dividendo la nostra RAL per 100mila otteniamo il valore lordo al minuto.
L’insalata spiega il divario tempo venduto-tempo acquistato
Un esempio: con una RAL di 42mila euro, il valore lordo al minuto è di circa 0,42 euro. Al netto, considerando una tassazione media del 30%, il valore scende a circa 0,30 euro al minuto. Questo è il prezzo a cui ogni giorno cediamo un minuto della nostra vita. Ora spostiamoci al supermercato. Abbiamo bisogno di lattuga. Due opzioni: la busta pronta, lavata e tagliata, a 2,40 euro per 200 grammi (circa 12 euro al chilo), oppure il cespo intero da lavare, a 2 euro al chilo. La materia prima è identica. Cambia solo il servizio. Togliendo i 2 euro della lattuga in cespo, paghiamo 10 euro per risparmiare circa 15 minuti di lavoro domestico. Dieci euro per quindici minuti significa circa 0,66 euro al minuto. Il paradosso è evidente: vendiamo il nostro tempo a 0,30 euro al minuto, e lo ricompriamo a 0,66 euro al minuto. Il doppio! Se volessimo mantenere un equilibrio economico lineare, l’insalata in busta sarebbe una scelta razionale solo per chi guadagna più di 130mila euro l’anno. Eppure, viene acquistata da persone di ogni fascia reddituale.
Perché? Io ho un’idea. Ma prima, so già quali potrebbero essere le obiezioni. Un economista parlerebbe di valore marginale del tempo: non tutti i minuti valgono uguale, e il tempo libero spesso ha un valore percepito più alto. Un esperto di marketing della grande distribuzione osserverebbe che l’insalata in busta è anche percezione di igiene, qualità e sicurezza alimentare, non solo minuti risparmiati. Uno psicologo dei consumi ricorderebbe che non compriamo solo tempo, ma anche facilità mentale: quella cognitive ease che ci libera dalla fatica delle micro-decisioni operative. Un sociologo parlerebbe infine di commodificazione della vita quotidiana: della progressiva monetizzazione di gesti e attività che un tempo erano gratuiti e personali. Tutti hanno un po’ di ragione. Eppure, secondo me, il punto è un altro. Comprare una busta di insalata è un gesto esistenziale. È una dichiarazione, inconsapevole, del valore che attribuiamo al nostro tempo quando cerchiamo di riprendercelo, rispetto a quanto gliene diamo quando lo vendiamo.
Il problema in-salariale
Il problema non è solo salariale. È “in-salariale”. È un problema che sta dentro il salario, dentro il modo in cui ogni giorno accettiamo di scambiare minuti della nostra vita per beni che ci restituiscono solo l’illusione di aver risparmiato tempo. Alla fine, le ipotesi sono due: o non sappiamo fare i conti, oppure sappiamo perfettamente qual è il nostro valore quando compriamo un’insalata pronta, ma non quando negoziamo il nostro lavoro. Ogni volta che acquistiamo tempo a un prezzo superiore rispetto a quello a cui lo vendiamo, stiamo implicitamente affermando che il nostro benessere vale di più. Sì, conosciamo il nostro valore. Forse non sappiamo solo farcelo riconoscere.
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