La mamma è sempre la mamma. Anche quando non rientra nei canonici modelli, non si ritrova nell’indice del manuale del buon genitore. Siamo ancora distanti dalle psicopatie pericolose di Mammina cara Joan Crawford. Ma la psicanalisi potrebbe scrivere pagine sulla protagonista di The Lost Daughter, di Maggie Gyllenhaal. Attrice, figlia e sorella d’arte (il fratellino Jake sbancò Venezia con il mitico I segreti di Brokeback Mountain, regia di Ang Lee), la Gyllenhaal si ritrova in concorso con la sua opera prima. Collocazione meritata, per un lavoro tradizionale ma affatto scontato, di bella tensione e sensibilità. Il merito va anche a Olivia Colman, grandiosa protagonista, nel ruolo di una mamma di famiglia con matrimonio naufragato alle spalle.

Nel naufragio, non ha perso solo il marito ma anche le figlie, ormai grandi. Tratto con libertà dal romanzo italiano La figlia oscura di Elena Ferrante, garantisce alla Colman (e agli spettatori) un bel duetto generazionale con Dakota Johnson, miss 50 sfumature. Il colore qui è quello azzurrissimo del mare di Grecia, ma le tinte sono torbide. Alla stregua di un romanzo rosa, che necessita di non scontate bravure per risultare vincente, un film per signore bisogna saperlo girare. E questo è il caso. Ovvio, non è ancora tempo di parlare di premi. Davvero troppo presto. Ma sul fronte femminile (al momento qualcosa meno sul maschile, dove è saldamente in testa Benedict Cumberbatch, per The Power of the Dog) si sono già viste cimentarsi gran dame, pronte a contendersi la Coppa Volpi alla migliore interpretazione femminile.

Senza dubbio la Cruz targata Almodovar di Madres paralelas. Oltre alla Diana sull’orlo di una crisi di nervi, bene affrontata da Kristen Stewart in Spencer. E, appunto, l’ottima Olivia Colman di The Lost Daughter (qui a Venezia, nel 2018, già trionfatrice con la sua regina di La favorita). Guarda caso, in tutte queste prove, si tratta di mamme. Più o meno care. Parla di figli, adolescenti, La ragazza ha volato di Wilma Labate, presentato nella sezione Orizzonti Extra. Forte della sua lunga e ottima produzione documentaria (Arrivederci Saigon), la sempre combattiva Labate (gli impegnati La mia generazione, Domenica, Signorina Effe) gira un piccolo, coraggioso e asciutto film che racconta con lucidità sconvolgente, mostrando tutto ma senza eccessi, una violenza sessuale. Vittima una ragazzina. Responsabile un quasi coetaneo. «Volevo evitare la brutalità evidente e pacchiana — dice la regista —. Non per togliere forza alla scena della violenza, ma per dargliene di più. Un abuso lascia il segno, per tutta la vita». Un film che, come ama spiegare l’autrice, “affonda”. E tocca, come una lama tagliente, la morale di chi lo guarda.