Le autorità italiane hanno bloccato la Sea Watch. Una delle navi di soccorso che salvano vite nel Mediterraneo, svolgendo un lavoro preziosissimo. La Sea-Watch batte bandiera tedesca. Le autorità italiane l’hanno bloccata con un pretesto paradossale: aveva salvato troppe vite. Hanno disposto quello che si chiama fermo amministrativo. Tra qualche riga vi spieghiamo come funziona questo paradosso. Prima non possiamo non fare una osservazione. Difficile immaginare che la decisione di fermare una nave dei soccorsi, proprio nel momento in cui più c’è bisogno di soccorso in mare, non sia presa sulla spinta di un input politico. L’autorità che è responsabile della decisione è il ministero dei trasporti (Giovannini è il ministro, peraltro persona, almeno apparentemente, ragionevole e pacifica) ma l’impressione è che l’indicazione di incattivire la guerra ai profughi sia una indicazione politica.

Che nasce in un clima di campagna elettorale molto acceso, nel quale, ancora ieri, sono intervenuti con toni molto oltranzisti sia Matteo Salvini sia, soprattutto, Carlo Calenda. Salvini si è limitato a ripetere quello che dice da tanto tempo: “Non vedo l’ora di ricominciare il lavoro che si era interrotto al Papeete e bloccare le barche dei clandestini”. Salvini i profughi li chiama così: clandestini. E al suo lessico l’altra sera si è associato pienamente Carlo Calenda, che pare abbia deciso di scavalcarlo, addirittura, nella furia anti-profughi. Non solo ha chiesto massimo rigore “nell’interrompere le rotte dei clandestini” (come si interrompono queste rotte? Affondandoli? No, ha spiegato Calenda: costringendoli nelle mani delle guardie libiche, che poi li porteranno nei campi di concentramento); ma dopo aver chiesto rigore ha spiegato che gli immigrati noi dobbiamo sceglierceli. Come si faceva nel Settecento e nell’Ottocento, in America, con gli schiavi neri. Venivano portati al mercato di Charleston, in Carolina, e battuti all’asta.

I migliori fruttavano molti soldini ai loro proprietari, i più scadenti venivano rispediti indietro e di solito morivano nel viaggio di ritorno. Del resto Calenda ha spiegato che così fan tutti. E probabilmente non ha torto: il progetto di settori abbastanza importanti dell’establishment italiano e di alcuni paesi europei è quello: usare l’immigrazione in modo razionale e funzionale alle economie occidentali. Cioè non considerare la fuga dai paesi poveri e dalle guerre un’emergenza da gestire con saggezza e solidarietà, ma come un’occasione per reclutare forza lavoro (della quale c’è assoluta carenza in Occidente) riducendone al massimo i costi. Per fare questo bisogna sbarrare le rotte dei disperati. Perché i disperati non ammettono selezione se non a norma di legge. E la legge, si sa, spesso è molto fastidiosa.

Ragionando così si capiscono molte cose anche della decisione di ieri delle autorità italiane, che peraltro fa strame di una recentissima sentenza della Corte di Giustizia europea, la quale – su richiesta di alcune associazioni di soccorso e poi del Tar di Palermo – aveva spiegato che il salvataggio in mare è un dovere e che i controlli possono esserci ma non devono essere il pretesto per fermare le navi. Invece proprio questo è successo. Controllo alla Sea Watch nel porto di Reggio Calabria, durato addirittura 13 ore e mezzo, perché evidentemente l’ordine era di trovare qualcosa che non andava. Però non è stato trovato niente. E allora si è deciso di sanzionare l’eccesso di salvataggio. Cioè, la tesi delle autorità italiane è che il numero delle persone salvate nell’ultimo intervento in mare era così alto da mettere in pericolo la sicurezza della nave. La quale però, guidata dal suo equipaggio, era giunta tranquillamente in porto. Immaginando che non si tratti di semplice pretesto, cosa bisognerebbe pensare? Che il ministero dei trasporti chiede ai soccorritori di contare ogni volta il numero degli aventi bisogno al salvataggio, prima di salvarli, e se questo numero dovesse risultare superiore ai criteri stabiliti dal ministero, procedere all’abbandono degli esuberi che in questo modo affogheranno senza violare le direttive del governo.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.