La globalizzazione dell’indifferenza. La disuguaglianza in vita e in morte. La vergogna dei respingimenti. Il Riformista ne discute con padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati.

“Altri tre bambini morti di sete…Dai, dai, parlateci ancora della regina”. È il titolo di questo giornale a commento dell’ultima tragedia in mare. Padre Ripamonti, ci sono morti che pesano come una piuma, e altri che pesano come una montagna?
Purtroppo sì. Ed è una conseguenza di quelle disuguaglianze che dividono il mondo. Alcune morti legate anche alla tradizione di paesi richiamano l’attenzione di un pubblico e altre che, pur essendo molto più gravi come caratteristiche, non richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media. È la conseguenza di questo mondo diviso dove non vige l’uguaglianza. E questo fa sì che alcune, tante, troppe persone valgano meno di altre. Lo vediamo nelle continue morti in mare. Prima ci si scandalizzava di fronte a una singola morte, poi ci sono state necessarie centinaia di morti e adesso non ci si scandalizza più di nulla.

Vorrei restare su questo punto. In un suo recente bel libro, lei ha messo sotto accusa la “globalizzazione dell’indifferenza”. Siamo dentro questo buco nero dell’anima e della mente?
Io riprendevo una citazione che aveva fatto Papa Francesco nel suo primo viaggio a Lampedusa, in cui lui parlò di questa globalizzazione dell’indifferenza, commentando durante la messa per i morti delle migrazioni, il brano della Bibbia di Caino e Abele. Il sangue di Abeleche grida giustizia e continua a gridare questa giustizia ma che si trova di fronte un mondo segnato da questa globalizzazione dell’indifferenza. Il Papa, da Lampedusa, chiedeva invece di assumersi ognuno la propria parte di responsabilità. In questi anni ci stiamo rendendo conto di come siamo dentro questa globalizzazione dell’indifferenza e ognuno per la sua parte rischia di non prendersi questa parte di responsabilità. E poi non dobbiamo meravigliarci se a livello politico e di governi non ci si prenda la parte di responsabilità come politica al servizio del bene comune e si affermi una politica d’interessi, indifferente a quelle che sono le necessità della gente.

A proposito di responsabilità che si sono assunte, in negativo, la politica e i governi. Il Memorandum d’intesa Italia-Libia. Dalle pagine di questo giornale Rossella Miccio, presidente di Emergency e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, hanno chiesto la cancellazione di quel “patto infame”. Lei come la vede?
Il Memorandum con la Libia è la conseguenza di una modalità di accordi di esternalizzazione delle frontiere che aveva preso avvio con la Turchia, per evitare quei flussi massicci ai quali, nel 2015, avevamo assistito nel cuore dell’Europa. Sulla scorta di questa esperienza di esternalizzazione si è proseguito su questa strada anche con altre realtà. Il Memorandum con la Libia è un altro tassello di una politica scellerata di esternalizzazione delle frontiere. So di usare parole forti. Ma queste parole sono rispondenti alla realtà. Con accordi quali quelli che l’Europa ha fatto con la Turchia e l’Italia con la Libia, si è inteso far fare il lavoro sporco fuori dalle frontiere dell’Europa, e dell’Italia, bloccando centinaia di migliaia di persone che rischiano di essere ricacciate in situazioni gravi dalle quali cercano di fuggire.

Quali sono le conseguenze di queste scelte scellerate?
Quelle persone scappano da guerre, disastri ambientali, fame, sfruttamento disumano, stupri di massa. E noi li ricacciamo indietro. Li ricacciamo nei centri di detenzionelibici, veri e propri lager in cui le persone subiscono ogni sorta di violenza, fisica e psicologica, dove vengono segregate, vivendo per settimane e mesi in condizioni che dire rischiose è un eufemismo. I bambini morti di cui stiamo parlando sono bambini siriani. Siamo di fronte alla conseguenza della dimenticanza di un conflitto e della segregazione di un popolo alle porte dell’Europa, dimenticando una guerra, che dura da oltre undici anni, dalla quale queste persone stanno fuggendo, cercando alternative a questa non vita. Alcune barche, sempre di più, stanno partendo dal Libano, con a bordo donne, uomini, bambini siriani.

Stanno cambiando le rotte che diventano più pericolose. E si muore sempre di più.
Nelle ultime settimane abbiamo visto tristemente che questi viaggi, che sono più lunghi e che attraversano varie acque internazionali di ricerche e soccorsi, finiscono con la morte di questa umanità sofferente. Il diritto marittimo oltreché quello umanitario imporrebbero il soccorso ma ciò non avviene. Non si tratta di tragedie del mare. Ma di crimini che come tali andrebbero perseguiti. Si sta creando una sorta di zona cuscinetto intorno all’Europa che impedisce alle persone di arrivare. Il Memorandum con la Libia rientra in questa logica. Quello che l’Italia ha attuato, con il sostegno dell’Europa, è un disegno di tenere fuori, di far fare il lavoro sporco ad altri, fuori dalle frontiere di una Europa che diventa sempre più una “Fortezza” ma che rischia di morire in se stessa. Non posso che ribadire con forza quanto affermato subito dopo la tragedia di Pozzallo. È inaccettabile e profondamente sbagliato che l’Europa si ostini a lasciar morire, nell’indifferenza sempre più colpevole, degli innocenti. Continuare a restare fermi in posizioni di chiusura, voler bloccare gli arrivi è irrealistico. Governare le migrazioni per trasformarle in una risorsa per le nostre società è un banco di prova in cui si misurano capacità di costruire il bene comune e visione del futuro. In questa ottica, il nostro auspicio è che l’unanimità raggiunta sulla questione degli sfollati ucraini possa rappresentare qualcosa di più profondo della risposta emergenziale all’invasione russa. Possa essere piuttosto l’inizio di una riflessione verso una politica comune sulle migrazioni, attraverso una vera solidarietà tra gli Stati, espressione dei principi fondanti dell’Unione.

C’è chi accusa il “mondo solidale” di fare denuncia e mai proposte.
È un’assoluta falsità. Come Centro Astalli abbiamo proposto la tempestiva attivazione di un’operazione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale che salvi i migranti in difficoltà e li conduca in un porto sicuro che non può essere la Libia; l’apertura immediata di canali umanitari dalle zone di guerra o di crisi umanitarie e quote d’ingresso per la gestione di una migrazione legale, ordinata e sicura. Tutte proposte concrete, praticabili, che si muovono nella direzione della legalità e dell’inclusione. Una via alternativa all’esternalizzazione e ai respingimenti esiste. Se non la si pratica è per scelta, non per mancanza di soluzioni.

Nel dibattito politico-elettorale che si è sviluppato sul tema delle migrazioni, vengono avanti, a destra, proposte come il blocco navale nelle acque territoriali libiche o i respingimenti di massa. L’altro da sé percepito sempre e comunque come minaccia e nemico da cui difendersi.
L’Italia è sempre in campagna elettorale anche quando si è lontani dalle elezioni. E in questo contesto, il migrante diventa strumento politico. Delinearlo come nemico, come colui che sottrae risorse, come quello dal quale difendersi, diventa un modo per non guardare in faccia quelle che sono le questioni nella loro complessità. Anche in questa campagna elettorale non vediamo l’interesse, la progettualità di comprendere una società che è sempre più multietnica e multiculturale, in cui le migrazioni devono essere regolamentate e non combattute, perché fanno parte ormai di questo mondo interconnesso e devono essere considerate come parte integrante del nostro presente e del nostro futuro. Rifiutare questa realtà, opporvisi con ogni mezzo, non fa altro che incrementare quelle disuguaglianze delle quali le persone che emigrano sono vittime. Attuando queste politiche di respingimenti non facciamo altro che enfatizzare quelle disuguaglianze dalle quali tante persone cercano di scappare.

Padre Ripamonti, in un paese che si chiude in se stesso, in una politica che non sa guardare in faccia le questioni nella loro complessità, ha ancora spazio l’utopia?
Il credo di sì. E a maggior ragione perché l’utopia, o per dirla con altre parole la speranza di un futuro diverso e più giusto, lo leggi sempre negli occhi dei rifugiati che incontri faccia a faccia. Loro sperano sempre in qualcosa di diverso, in qualcosa di migliore per la loro vita. Questa speranza, questa utopia di un mondo più giusto e più vero, è nei loro occhi e se noi troviamo il coraggio di guardare queste persone negli occhi, non perdiamo neanche noi questa utopia e il desiderio di un futuro più giusto e uguale per tutti.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.