Entra Ruotolo, esce il riformismo meridionalista. Nel Pd è così che vanno le cose. Dentro il giornalista figlio di Santoro e Samarcanda, il nipotino di quella Rai piazzaiola e protopopulista di Curzi, il Kojak della terza rete, e fuori una lunga tradizione di storia e cultura politica che risale ad Amendola, Napolitano, Chiaromonte, Valenzi, Geremicca e giù giù fino a Umberto Ranieri, ormai quasi messo alla porta di un partito alle prese con una radicale mutazione identitaria. Per ironia della sorte, poi, la rottura si è simbolicamente perfezionata proprio l’unica volta in cui il Pd napoletano ha vinto un’elezione da quando è nato. Vale a dire alle suppletive di domenica scorsa per il Senato, quando a votare è andato solo un napoletano su dieci, un vero e proprio infarto della rappresentanza. “Roba da urlo di Munch”, ha commentato lo storico Paolo Macry. E invece la sera dello spoglio , forte del 48,45% dei consensi, ma debole del 4% reale dell’elettorato, Ruotolo ha addirittura intonato “Bella ciao” e tutta la sinistra ha cantato con lui.

Dunque, è vero, a Napoli ha vinto il candidato del Pd scelto tra i più organici al sistema politico-culturale del sindaco di Napoli, e tutti hanno messo insieme le particelle subatomiche di una sinistra-sinistra priva della propria componente liberale: hanno catturato i voti in fuga dal Movimento 5 stelle e ne hanno presi più di un centrodestra confuso, diviso e rinunciatario. Sarebbe però assai curioso, visti i numeri assoluti, calarsi in una sorta di microfisica del voto e ignorare del tutto, come i vincitori vorrebbero, la realtà prevalente. Che è quella, appunto, di un clamoroso flop politico. Che vittoria alle urne è – si chiede ancora Macry – quando nessuno va alle urne? A proposito: che fine hanno fatto le tanto celebrate sardine con tutto il loro carico di entusiasmo e di retorica partecipazionista? Disperse nel tratto Bologna-Napoli?

Proprio a partire da Napoli, si delineano così due rivolte per nulla convergenti. Da una parte, quella degli astensionisti consapevoli contro l’oligarchia politica che ha preferito candidature di comodo a strategie più meditate. Dall’altra, quella di segno antiliberale orgogliosamente cavalcata dalla sinistra meridionale di Ruotolo; la sinistra di de Magistris che governa sommando disavanzi e disservizi e colleziona censure della Corte dei conti e condoni della maggioranza rossoverde; quella di Orlando, il vice di Zingaretti, che del Pd napoletano è ormai il dominus e delle precedenti sconfitte è da tutti ritenuto il responsabile “da remoto”; la sinistra del gruppo di intellettuali che ruota intorno al ministro Provenzano, coautori di un piano decennale per il Sud da più parti indicato come di sovietica impostazione. Due rivolte. Due mondi. Il punto è però che l’altra rivolta, quella astensionista, è priva di sponde politiche. Viceversa, potrebbe giocare un ruolo decisivo se solo qualcuno decidesse di rappresentarla sotto la bandiera del riformismo. Ma chi? Renzi e Calenda che alla fine, con tanto di pinza al naso, hanno sostenuto il candidato con la bandana di de Magistris?