Economia
Concorrenza fiscale, FCA e decreto Liquidità

In queste ore si sta discutendo molto sull’utilizzabilità da parte di FCA delle norme previste dal d.l. liquidità: richiesta di attivare la garanzia dello Stato per il prestito di 6 miliardi chiesto ad una banca. Lo Stato ha messo in campo un volume di risorse per garantire 200 miliardi di euro. Premesso che FCA Italia paga le tasse in Italia, che ha 55mila dipendenti diretti e altri centinaia di migliaia con l’indotto, che il settore auto ha subito un crollo di vendite e di flussi di cassa straordinari e che si protrarranno, che sono urgenti interventi per sostenere il settore a partire dallo stock rimasto invenduto, che il d.l. Liquidità assicura già che la concessione della garanzia sia legata all’utilizzo delle risorse in Italia, il dibattito ha interessato il tema sugli effetti prodotti dalla concorrenza fiscale di alcuni paesi europei e non solo.
Di fronte ad una discussione che nasce con lo svilupparsi di una economia sempre più aperta e globale la politica in passato non è stata in grado di trovare soluzioni efficaci per dare risposte adeguate e coerenti con i tempi.
Molto spesso il neo-nazionalismo sembra prevalere ed andare a braccetto con spinte populistiche che nulla hanno a che fare una visione riformista di una società che, passata l’emergenza sanitaria, deve ritrovare la sua vena globale ed intensificare gli scambi commerciali quale unico motore per un crescita economica duratura ed inclusiva.
In questo contesto, credo che la questione da tutti nota del profit shifting sia l’ennesima occasione per rilanciare il ruolo dell’Unione Europa in un momento decisivo per il suo futuro. Credo che sia fondamentale porre al centro del dibattito europeo , chiamato a dare risposte condivise per uscire da questo momento di crisi, l’idea di una base imponibile comune per le società e di un’aliquota d’imposta comune a livello europeo.
Il tema della common corporate tax base, peraltro già affrontato nel 2016 dalle istituzioni europee, deve essere posto di nuovo al centro del dibattito politico, accanto alle altre questioni oggi trattate, perché anche il mondo delle imprese attende risposte uniche a livello europeo. Fissare a livello comunitario un unico modo di determinazione della base imponibile e un’aliquota unica al 12 per cento non solo eviterebbe gli effetti tipici della concorrenza fiscale ma andrebbe a far comprendere al nostro sistema produttivo l’importanza di appartenere ad un unico e vero mercato europeo.
Questo intervento deve essere attuato senza incidere sui bilanci statali attraverso strumenti di mutualizzazione a livello europeo. In questo contesto propongo la costituzione di un fondo europeo di riequilibrio alimentato attraverso vari canali. In primis, all’inizio del dibattito sul nuovo ciclo di ripartizione dei fondi comunitari, una riallocazione delle risorse disponibili anche rivedendo le politiche di intervento e razionalizzando i fondi comunitari finanziati. In secondo luogo, attraverso l’introduzione di una tassazione europea sulle transazioni digitali che a livello nazionale non potrà mai essere efficace rispetto ad un contesto unitario a livello europeo.
Infine, in queste ore il rapporto del Tax Justice Network ci dice che la mancanza di una disciplina comune europea della tassazione del reddito di impresa fa perdere a tutti i paesi europei più di 27 miliardi di dollari di imposte dalle sole aziende statunitensi che hanno sfruttato le opportunità di una disciplina disomogenea.
Per la politica italiana, porre questo tema al centro del dibattito europeo deve essere una priorità assoluta: occorre attuare quella riduzione della pressione fiscale necessaria per consentire alle nostre imprese di riprendere il cammino della crescita ed anche per riportare nel nostro territorio imprese in passato emigrate all’estero. In prima battuta questa proposta andrebbe a ridurre la pressione fiscale sulle nostre imprese di ben 16 miliardi di euro con evidente beneficio di tutto il sistema produttivo.
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