Bisognerà considerare un cattivo maestro anche Buddy Holly, star del rock’n’roll anni ‘50 perito giovanissimo in un tragico incidente aereo, e bollare come incitazione a delinquere uno dei suoi pezzi più famosi, il frenetico Rave On!, datato 1958? Il fenomeno che il governo Meloni ritiene “necessario e urgente” stroncare con le cattive ha radici antiche e una storia lunga, tanto da destare legittimi sospetti sull’urgenza dell’ennesimo decreto emergenziale.

Buddy non era infatti il primo a definire Rave quelle che gli anglosassoni chiamano “wild parties”, feste selvagge. Ci avevano pensato già all’inizio del decennio i beatnik di Soho, Londra, con il jazzista Mick Mulligan ribattezzatosi “King of Ravers”. Il nome e la cosa rimasero in vigore anche nella swinging London degli anni ‘60, in particolare tra i Mods, probabilmente la più influente sottocultura giovanile nella seconda metà del XX secolo. Si definivano “ravers” per l’abitudine di passare da un party selvaggio all’altro sia Steve Marriott che Keith Moon, rispettivamente cantante degli Small Faces e batterista degli Who, le principali band mod dell’epoca. Gli Yardbirds, altra band essenziale, intitolarono nel 1965 Having a Rave Up uno dei loro album più importanti.

Da molti punti di vista si può considerare un rave persino il concerto più famoso della storia, la tre giorni di Woodstock nell’agosto del 1969. Certo non si trattava di un evento segreto né gratuito e il padrone dell’area dove si tenne il concerto, il contadino Max Yasgur, era consapevole e consenziente. Ma a sorpresa si presentarono all’appuntamento circa 500mila giovani, l’area occupata di conseguenza si allargò a dismisura senza che Yasgur ci trovasse nulla di male, l’idea di far pagare il biglietto si trasformò in una chimera, gli stupefacenti erano ovunque, i decibel altissimi. Molte delle ragioni che secondo Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi rendono urgentissimo, oltre che necessario, l’intervento repressivo dello Stato si sarebbero potute addurre per vietare Woodstock.

Ma anche a voler essere puristi e a considerare Rave solo ciò che si indica oggi con quel nome, comunque di un fenomeno longevo e antico si tratta. S’intendono le feste di massa, con Edm, Electronic Dance Music in tutte le sue molte varianti sparata a palla, danza frenetica per ore, luci laser quando possibile, dunque quasi esclusivamente nei raduni legali, largo uso di sostanze stupefacenti, in particolare allucinogeni e non più soprattutto l’un tempo obbligatorio Mdma, base dell’Ecstasy. Le radici del Rave “moderno” datano ai primi anni ‘80, a partire dal Texas, dove l’Mdma era allora legale, per esplodere poi a Chicago, con la nascita della House Music. Dai club di Chicago la House Music e le feste di cui era l’anima rimbalzarono rapidamente nel Regno Unito, prima a Manchester, poi a Londra, in quella che viene definita “la seconda estate dell’amore” (la prima essendo quella hippie del 1967 a San Francisco) ma che in realtà proseguì senza soluzione di continuità dall’estate del 1988 a quella del 1989.

I Rave si diffusero subito in tutto il Regno unito e di lì in Europa, Italia inclusa. Le feste erano organizzate in grandi magazzini abbandonati e fabbriche dismesse, per quanto possibile lontano dai luoghi abitati per evitare le proteste, e si prolungavano per due o tre giorni. Nel 1990 furono varate in Inghilterra le prime leggi anti Rave, con l’obiettivo di reprimere “comportamenti antisociali e uso di droghe”: ospitare Rave illegali diventò punibile con ammenda fino a 20mila sterline. L’organizzazione dei free parties diventò così segreta, con l’annuncio dell’evento e della località di volta in volta scelta comunicato solo all’ultimo momento dalle radio libere oppure tramite segreterie telefoniche. Fu organizzato così il party che segnò l’inizio della guerra aperta dello Stato contro i ravers: quello di Castlemorton Common, Worcestershire, nel 1992.

Erano attese poche centinaia di persone. Ne arrivarono 20mila, a tutt’oggi il più grande Rave illegale nella storia del Regno Unito. La reazione del governo fu la legge, ancora in vigore, che permette alla polizia di respingere i veicoli nell’area di 8 km dalla località del Rave e vieta i raduni in cui più di 20 persone ascoltino musica “caratterizzata dall’emissione di ritmi ripetitivi” a volume tale da creare “seri disturbi per gli abitanti della località”. Nei 25 anni successivi, però, le leggi non hanno fermato la diffusione del Rave, anche se le feste più grandi vengono ormai organizzate nei Paesi nei quali i divieti sono inesistenti o più leggeri, come la Francia fino all’ottobre 2019 o l’Italia sinora. Gran parte dei Rave sono peraltro ormai legali, l’equivalente moderno dei vecchi festival rock, e radunano centinaia di migliaia di giovani, come l’Electric Daisy Carnival di Las Vegas nel 2013, al quale parteciparono 300mila persone, il più grande d’America sinora.

In Italia la destra ha trasformato i Rave, che si organizzano non da anni ma da decenni, in questione determinante per l’ordine pubblico nell’estate del 2021, quando circa 8mila giovani si radunarono per un party libero estivo di molti giorni vicino al lago di Mezzano, tra Lazio e Toscana. Fu l’occasione per sparare a zero sull’allora ministra Lamorgese, colpevole di non essere intervenuta. Le polemiche furono replicate a ottobre dello stesso anno, per un Rave vicino Nichelino, in Piemonte. Un gruppo di senatori di destra propose allora una legge draconiana che sarà probabilmente ripresa quasi integralmente dal dl in arrivo. L’appuntamento successivo fu nell’aprile di quest’anno, a Siena, e la destra promise di stroncare i festaioli una volta per tutte. Ora la festa è finita e il governo festeggia. Ma c’è poco, anzi non c’è niente da festeggiare.