L'istanza di revoca del 41 bis respinta
Cospito come Gesù, usa il suo corpo come un’arma
Le parole hanno sempre un peso. Soprattutto se sono vergate in atti ufficiali e hanno le stimmate delle più alte autorità pubbliche. Soprattutto se sono adoperate da persone di cui sono note le fini letture e l’elegante formazione storica. Per questo le parole spese dal ministro Nordio per rigettare la richiesta di revoca del regime 41-bis proposta dalla difesa di Alfredo Cospito, devono essere lette sotto il prisma di una particolare attenzione.
Fuori da ogni mediazione burocratica e da ogni infingimento descrittivo, il provvedimento dice esplicitamente che il detenuto anarchico, con il suo estenuante sciopero della fame, «adopera il proprio corpo come un’arma». Rispetto a un paese in cui la palude ministeriale giunge a chiamare «carico residuale» i migranti non ammessi ai centri di prima accoglienza, lo scarto qualitativo non è di poco conto e rende con estrema efficacia la posizione del Guardasigilli. Il ragionamento è chiaro: prospettando la possibilità di morire per effetto della prolungata astensione dall’assumere cibi, Cospito adopera sé stesso, la propria fisicità, il plesso organico vitale che gli appartiene senza alcuna altra mediazione, come una pistola puntata alla tempia dello Stato.
Non stiamo a parlare delle nefaste e imprevedibili conseguenze che la sua morte potrebbe avere. A quel che pare altri soggetti istituzionali che hanno a disposizione notizie privilegiate ritengono che la morte di Cospito in regime di 41-bis, anche se in ospedale, avrebbe conseguenze pesantemente negative per la sicurezza e l’ordine pubblico. Legittimamente il governo ha ritenuto di non poter sottostare a quello che percepisce, a torto o a ragione, come un ricatto e all’inquilino di via Arenula è toccato lo sgradito compito di dare forma e sostanza a questa posizione. Tuttavia, che il corpo di un essere umano sia da costui adoperato come un’arma richiama alla mente altre contingenze e altre storie.
In una ideale linea retta ai cui estremi si possono collocare, da un lato, i kamikaze islamici e, dall’altro, i martiri cristiani e Cristo stesso, il corpo è stato sempre percepito come la più estrema e convincente delle argomentazioni. Anzi come la più autentica delle testimonianze, persino di quelle più feroci dei terroristi che immolano sé stessi per rendere obbedienza alle proprie terrificanti ideologie. L’autodistruzione della corporeità come esordio capace di innestare una palingenesi, una successione di reazioni a catena che portino all’affermazione del proprio credo o anche solo del proprio fanatismo. È dubbio che Alfredo Cospito voglia iscriversi nell’albo nero dei terroristi morti con l’esplosivo in tasca; anzi ha espressamente detto che non ha alcuna intenzione di suicidarsi.
Dal suo punto di vista, la perdita della vita, c’è da pensare, non sarebbe altro che un sacrificio, al pari di tanti altri nella storia del mondo, consumato questo come quelli per rendere pubblica testimonianza a una propria verità, a un’idea irrinunciabile e non negoziabile per quanto sbagliata agli occhi di quasi tutti. Nella storia dell’uomo, delle ideologie e delle religioni, si potrebbero rintracciare tanti episodi simili, in Irlanda nel Nord, nella Cecoslovacchia invasa dai sovietici, nei templi del Tibet, ovunque l’essere umano avverte la tentazione di poter vincere il nemico, di poter battere l’avversario immolandosi del tutto, annientando la propria corporeità.
Nella traiettoria di questa sequenza ciclica di storie, ha ragione il ministro Nordio: la scelta del detenuto Cospito è un’arma rivolta contro sé stesso e, per ciò solo, puntata contro quelli che potrebbero essere additati come i responsabili della sua morte. Non si tratta di fare paragoni o rendere accostamenti improponibili, ma un punto merita attenzione: sono state proprio le parole di Nordio, queste precise parole, a flettere la discussione su un piano ulteriore; si badi bene non superiore, quanto diverso dalla ben più misera contesa politica. La completa sovrapposizione tra l’uomo Cospito e le sue idee, più detestabili e condannabili, si realizza esattamente nel momento in cui lo si accusa di “abusare” della sua fisicità come fosse una rivoltella e così facendo si innalzano alla sacralità della vita le sue convinzioni fallaci, quando non addirittura criminali.
La storia del Cristianesimo si fonda sul credo che Dio abbia immolato il proprio figlio unigenito per la salvezza dell’umanità. La consunzione in croce del corpo e l’inizio della sua putrefazione nel sepolcro sono le conseguenze inevitabili, inarrestabili della libera scelta del Creatore di condividere sino in fondo e senza alcuna attenuazione la caduca corporeità umana del Creato. Da questo punto di vista non vi sarebbe quella fede che si è propagata nel mondo per millenni senza un corpo umano che – nell’ultima cena e nella fractio panis – si fosse tramutato addirittura in cibo. Un’arma potentissima che si è subito scagliata contro le idolatrie e contro ogni violenza e sopraffazione e che dal riscatto corporale, dalla consegna ai seviziatori proprio della carne e delle ossa prende le mosse per rendere testimonianza alla verità.
Come scritto nel tragico dialogo tra Ponzio Pilato e il Nazzareno in cui si coglie, dopo secoli, tutte la ineluttabile necessità del sacrificio del corpo e della passione del sangue: allora Pilato gli disse «dunque tu sei re?» rispose Gesù «tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità». Senza l’uso del corpo, senza la dirompente decisione di consegnarsi innocente al sacrificio, la fede non avrebbe avuto radici salde e si sarebbe trasformata in una mera credenza tra le tante consegnate all’oblio della storia. E come ignorare il completarsi del disegno divino con l’avverarsi della più mistica profezia fatta al popolo ebraico («perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione» Salmo 15) e grazie al mistero della resurrezione, del ritorno misterioso e ineluttabile alla vita che pervade le membra corrose dalla morte.
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