«Lo Stato ha il dovere di tutelare la vita del detenuto, anche contro la sua volontà». Così, sembra, il “piano Omega” predisposto dall’Amministrazione penitenziaria in caso di peggioramento delle condizioni di salute di Alfredo Cospito. Il che significherebbe sottoporlo a trattamento sanitario obbligatorio, con alimentazione e idratazione forzata, nonostante egli abbia firmato una dichiarazione contraria. Un simile provvedimento sarebbe legittimo? Sarebbe costituzionale? Assolutamente no.

Secondo l’art. 32.2 Cost. «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In forza del rispetto di tale limite, i trattamenti sanitari possono essere imposti solo se contemporaneamente ne beneficiano la salute sia del singolo che dell’intera comunità. Ciò in conformità alla duplice natura della salute, considerata dal suddetto articolo ad un tempo «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».
Il legislatore dunque non può imporre per legge trattamenti sanitari che in nome della tutela della salute collettiva sacrifichino quella del singolo. Fu il caso del programma nazista Aktion 14 che prevedeva tragiche forme di pratiche sanitarie eugenetiche “per il miglioramento della razza” cui in Assemblea costituente fece riferimento Aldo Moro per motivare l’introduzione del suddetto limite.

È stato il caso delle vaccinazioni da Covid-19, introdotte quando ne è stata dimostrata in sede scientifica l’efficacia e la normale tollerabilità, salvo quelle conseguenze marginali e purtroppo statisticamente inevitabili (appena nove morti in Italia a fronte di decine di milioni di vaccinati). Allo stesso modo, il legislatore non può imporre trattamenti sanitari obbligatori in nome della tutela della salute del singolo di cui non traggano beneficio o, peggio, danneggino quella della collettività. Un trattamento sanitario può essere imposto per legge, infatti, solo se «diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale» (C. cost., sentenze 307/1990, 5/2018, 107/2012, 268/2017).

Difatti, «il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri» (J. Stuart Mill). È proprio tale dimensione collettiva che ne giustifica la prevalenza sul rispetto della vita privata (Corte Edu, Grande Camera 8.4.2021 Vavřička e altri c. Repubblica ceca).Non a caso gli accertamenti (ASO) e, nei casi più gravi, i trattamenti sanitari obbligatori (TSO) possono essere disposti a carico di singoli, contro la loro volontà, quando si tratti di persone pericolose per sé e per l’intera collettività che versino in una situazione di alterazione non transitoria, che abbiano rifiutato i programmi terapeutici proposti e per i quali non sia possibile adottare misure extra-ospedaliere.

Al di fuori di tali presupposti vige quindi il principio della libertà di sottoporsi o meno alle cure sanitarie, come dimostra la vicenda Englaro e la legislazione che ne è seguita proprio per evitare il ripetersi di tali casi. Oggi, infatti, «nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata» (art. 1.1 legge n. 219/2017 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento). Ognuno ha quindi il diritto – anche tramite le cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento – «di rifiutare [o di interrompere], in tutto o in parte (…) qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso», inclusi i trattamenti sanitari di sostegno vitale, tra i quali espressamente la legge comprende la nutrizione e l’idratazione artificiali «in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici» (art. 1.5 l. cit.).

Pertanto, la libertà di autodeterminazione terapeutica non può essere legittimamente invocata quando dal rifiuto di un trattamento sanitario – per questo obbligatorio – può derivare un rischio per «la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri» (Corte cost., 218/1994, 2). In altri termini, come efficacemente detto dal nostro presidente della Repubblica, libertà di cura non vuol dire certo libertà di far ammalare gli altri. Piuttosto la libertà di autodeterminazione terapeutica può sempre essere legittimamente invocata, fino all’estremo di rifiutare cure salva-vita, quando dal suo esercizio non derivano rischi per la salute collettiva. È questo giustappunto il caso di Cospito che ha sottoscritto disposizioni anticipate di trattamento per rifiutare di sottoporsi ad alimentazione e idratazione artificiali, anche qualora fosse un domani in condizioni di incapacità d’intendere e di volere.

Di fronte a tale rifiuto, l’amministrazione penitenziaria non potrebbe invocare paternalisticamente, come dicevamo all’inizio, il dovere di tutelare la vita del detenuto anche contro la sua volontà. Si tratta di un argomento infondato perché paradossalmente consentirebbe all’amministrazione penitenziaria d’imporre trattamenti sanitari contro la volontà del detenuto quando al contrario ciò è vietato a quella amministrazione – sanitaria – che per sua specifica natura ha il compito di tutelare la salute dei malati. L’uso della forza fisica nei confronti di detenuti e internati è previsto solo se «indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione e per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti» (art. 41.1 l. 354/1975; v. anche l. 663/1986).

Quest’ultimo inciso non potrebbe certo applicarsi di fronte ad un comportamento meramente passivo, come il digiuno di un detenuto, in relazione al quale un eventuale “ordine di alimentazione forzata” dell’amministrazione penitenziaria non sarebbe giustificato dalla tutela di un interesse pubblico e violerebbe il diritto costituzionale di rifiutare i trattamenti sanitari non imposti per legge (art. 32 Cost.). Inoltre saremmo di fronte ad un provvedimento amministrativo che andrebbe ad incidere su una libertà, quella personale (art. 13 Cost.), coperta da riserva di giurisdizione per cui potrebbe essere preso (in ipotesi) solo dal giudice. Infine, ed è sinceramente la considerazione più grave, ci troveremmo di fronte ad un trattamento clamorosamente discriminatorio, per motivi evidentemente politici, rispetto agli altri quattro detenuti che, nel silenzio generale, incluso quello dell’amministrazione penitenziaria, sono morti dal 2009 nelle nostre carceri per sciopero della fame.