Le istituzioni alla prova del caso dell'anarchico
Serve un martire della legge per cambiare il 41bis?
Il caso Cospito è un paradigma del bisogno nazionale di martiri della legge per riuscire a cambiarla, ma anche dello scacco per lo Stato di diritto nel cedere al ricatto dei violenti. Una delle ragioni per le quali esistono regimi differenziati di esecuzione della pena e diverse sanzioni è che la delinquenza, che pure c’è anche se non tutti gli autori di reato sono riconducibili all’immaginario collettivo del criminale – anzi, sono assai spesso normalissime persone – presenta figure e tipologie di autori che costituiscono uno specifico problema penale-criminologico. Sono orientati al delitto, per educazione, selezione sociale, psicologica o per convinzione.
Per queste persone soprattutto si dispiega il carcere, mentre per gli altri esiste solo per far paura a tutti, perché non si commettano i reati. In questa seconda e principale situazione si può vedere una strumentalizzazione dell’individuo per scopi di prevenzione generale, accettata (finora) dalla società come una immoralità necessaria. Invece, nei casi di autori a orientamento delittuoso c’è una esigenza di neutralizzazione e rieducazione specifica, che comprende le forme più serie di segregazione carceraria. Non è un problema di giustizia o di retribuzione, ma di difesa sociale. Il normale detenuto può svolgere un lavoro all’esterno e avere permessi premio. Chi continua a essere inserito in un contesto di criminalità terroristica o mafiosa, pur essendo detenuto, non ha questi diritti. Ma ne conserva comunque tanti altri. Di questo dobbiamo parlare.
Superato lo step della commisurazione della pena, applicata in giudizio, si aprono varie opzioni esecutive. Poiché in tale fase lo Stato ha nelle sue mani la persona, e potrebbe distruggerla, si profilano molti problemi di orientamento della pena al rispetto dei diritti fondamentali e al “senso di umanità” (art. 27, co. 3, Cost.). La Costituzione pone il problema dell’umanità dello Stato, non solo della pena, come un dovere. Se il carcere in sé, per le sue logiche e le sue ‘leggi’, le sue compresenze inquietanti, rappresenta una sfida in generale alla dignità delle persone nella normalità dei casi, nei regimi differenziati i problemi si accentuano. La maggior parte delle persone che provengono dalla criminalità organizzata e mafiosa o che hanno comunque scelto la via del delitto, sono più preparate al carcere, che fa parte della loro cultura e della loro vita.
Ma la realtà effettiva può risultare comunque devastante. Si aggiungono qui misure speciali di neutralizzazione e sorveglianza, di divieti o limitazioni estreme di comunicazioni con l’esterno, di restrizione dei rapporti con altri detenuti, riduzione dei colloqui, loro videosorveglianza, esclusione o limitazione di letture, musica, per non parlare di affetti, che di per sé si pongono in tensione o in collisione con l’art. 27, co. 3, Cost.: perché non solo la neutralizzazione si sostituisce alla rieducazione, ma vede aggiungersi alle sue modalità contenuti inutilmente afflittivi e disumani.
Il regime dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario si inserisce in tale contesto per “situazioni di emergenza” definite gravi, al di là dei casi di rivolta, e prevede la sospensione del normale trattamento penitenziario. A questa ipotesi di base, peraltro, la norma introduce, al comma 2, una estensione della misura, e cioè della sospensione del normale trattamento in caso di delitti con finalità di terrorismo mediante atti di violenza, oltre che di delitti di mafia o con finalità di agevolare le associazioni mafiose, là dove sussistano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica.
Anche chi non partecipa a una rieducazione “attesa” e alla richiesta di collaborazione prevista dall’art. 4-bis ordin. pen. per reati associativi, e si trova a non avere accesso ai normali benefici (sempre ai sensi dell’art. 4-bis) dimostrando, oggi in base a indizi concreti e non più a presunzioni, di essere ancora inserito in contesti criminali esterni, può risultare tra i possibili destinatari delle limitazioni imposte dall’art. 41-bis: c’è infatti un collegamento diretto tra mancata collaborazione indiziante il mantenimento di rapporti criminali con le organizzazioni esterne, e carcere duro, in questi casi. Non collabori e sei pericoloso, dunque non puoi godere dei benefici (permessi premio, lavoro all’esterno, misure alternative alla detenzione) ma sei anche, in aggiunta, soggetto a un regime detentivo di maggiore esclusione.
È il carcere che non può rieducare perché deve segregare.
È la pena come misura di sicurezza, sine die, perché dopo i primi quattro anni si può prorogare la misura di due anni via via senza limiti, se non quelli della pena complessiva da scontare: una temporaneità spesso di fatto apparente. Ma è anche qualcosa di più rispetto allo “scopo”, cioè attuare le restrizioni “necessarie” per impedire i collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza (art. 41-bis, co. 2): perché le condizioni o le prescrizioni di fatto, che non sono scritte nella legge, restituiscono una realtà più afflittiva e disumana, per restrizioni di spazi, impedimento di rapporti familiari minimali per anni, limitazione di diritti a istruzione, vita sociale anche in carcere.
Applicate in molti casi prima che la decisione di condanna sia divenuta definitiva. Non è poi difficile vedere nel ricordato nesso tra 4-bis e 41-bis, se non si dovesse rispettare la “necessità” di evitare i collegamenti con le associazioni di riferimento, una costrizione a collaborare mascherata, una forma di tortura, peraltro imposta non con atto giurisdizionale, ma del Ministro della Giustizia. È una pena aggiunta, nell’esecuzione, irrogata dal Ministro, cioè da un organo politico-amministrativo. Un aspetto di straordinaria ed eccezionale costruzione giuridica.
Questo tipo di disciplina esprime quello che è stato definito “diritto penale del nemico”. Il condannato è meno “persona” di altri reclusi, perché ha fatto una scelta anti-Stato, contro i valori minimali della società civile, in favore della delinquenza violenta organizzata: è un nemico perché non ha capacità dialogica sui valori di base. Lo Stato, dunque, adotta un trattamento escludente, per impedire la perpetuazione di rapporti con realtà criminali organizzate attuali. Una parte non marginale dei penalisti ha negato (sdegnata) che esista un diritto penale del nemico (illegittimo, non-diritto, ma violenza). Ma quel “diritto” esiste e ha nella criminalità mafiosa e terroristica il suo nucleo più consistente, peraltro allargatosi a tanti altri tipi di autore e reati (v. l’elenco assai più ampio dell’art. 4-bis ordin. pen.). Siamo ai livelli più afflittivi, per queste forme di esecuzione, in un confronto europeo.
Ed è qui che si colloca la discussione attuale: il caso Cospito, che ha alla base anche l’iniquità sanzionatoria di una aleggiante condanna all’ergastolo dopo l’annullamento della condanna a trent’anni per un attentato alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo) senza vittime reali (fatto riqualificato in Cassazione come art. 285 c.p.), quale emblema della resistenza dello Stato a uno sciopero della fame che veicola la richiesta di una modifica legislativa per tutti, cioè in pratica per quasi tutti i “mafiosi” al 41-bis. È la contestazione della logica del nemico, ma anche la richiesta “irricevibile” di cedere a uno sciopero della fame a vantaggio non solo di un “delinquente per convinzione”, ma di ben altre figure criminali, supportata dall’escalation in atto di manifestazioni violente.
L’osservatore non comprende perché lo Stato non mostri di voler restare o diventare umano, rispettando il “senso di umanità” dell’art. 27, co. 3, Cost., senza per questo essere fesso. Ne ha tutti mezzi. Non deve avere paura. Il diritto del nemico è una realtà pensata per uno stato di guerra, dove chi delinque dovrebbe essere annientato. È un fenomeno normativo da contrastare. Premesso che esistono, come detto, situazioni differenziate sul piano criminologico, che giustificano trattamenti diversi, non deve essere messa in discussione l’umanità di questi trattamenti, l’uomo come fine, sempre. Che cosa, in concreto, si deve modificare del 41-bis? Una larga parte inutile e vessatoria dei suoi tratti esecutivi e l’estrema ampiezza della sua applicazione a base politica.
Dunque, ciò che si deve discutere è il “caso Cospito”, o il “caso 41-bis”? Le forze politiche si sono rissosamente divise sul tema incostituzionale “ma da che parte stai?” Noi non dobbiamo stare da nessuna parte che non sia quella del diritto, di un diritto umano e non violento. Cospito, invece, deve avere un trattamento uguale, non disuguale, agli altri circa 750 detenuti al 41-bis, se sussistono le condizioni di legge. Ma che non sussistano quelle condizioni, ancora sub iudice, è un tutt’altro aspetto della vicenda, che si è legata al tema più generale di una riforma sollecitata da anni dai giuristi più attenti.
È invece dispiegato un tratto dello spirito nazionale, che le leggi emergenziali, poi divenute quasi sempre permanenti (tale il regime penitenziario dell’art. 41-bis), non si debbano più cambiare, a meno che non ci scappi il morto. Come i morti producono legislazioni di emergenza, c’è bisogno di un martire della legge, reale o immaginato, perché la razionalità e l’umanità ritrovino insieme una nuova direzione. È una regola non scritta delle leggi sanguinarie.
È dunque prevedibile che se Alfredo Cospito non morirà per sua scelta vittimaria, magari impedito coattivamente, l’art. 41-bis non sarà modificato, salvo l’intervento di una qualche Corte suprema a risolvere i problemi di una politica e di un Paese troppo divisi, ingovernabili senza la mediazione di un deus ex machina capace di imporre un diritto migliore delle leggi. Perché il valore identitario dello Stato si misura sulla capacità di resistere ai violenti con le ragioni, ma anche con la forza del diritto.
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