In alcuni recenti articoli pubblicati negli Stati Uniti dal Wall Street Journal e dal Cato Institute, riaffiora la tesi mai sopita che la gestione della pandemia in Svezia fu la più lungimirante. Ad un mese dall’inizio della nostra controversa Commissione d’inchiesta sul Covid, ci incoraggiano a rivalutare le scelte atipiche e per certi versi azzardate di Stoccolma. Come dimenticarle. A parte pochissime chiusure mirate, il governo svedese lasciò procedere la vita sociale il più regolarmente possibile mentre il resto del mondo si barricava. Con implicito riferimento alla famigerata “immunità di gregge”, gli svedesi permisero che scuole, bar, palestre, negozi e ristoranti rimanessero in larga parte aperti, contando su un servizio sanitario moderno ed efficiente. La destra americana oggi ci tiene a rimarcare come quelle scelte così radicali abbiano prodotto alla lunga risultati molto simili a quelli nel resto dell’Occidente in termini di mortalità in eccesso, una migliore ripresa economica, e soprattutto più benefici di lungo periodo in ambiti quali l’istruzione, altrove devastata dalla DAD, e la salute mentale. Non è difficile immaginare queste tesi riaffiorare da noi, aizzate da quella politica che non ha mai smesso di strizzare l’occhio a vari movimenti complottisti della galassia no-vax.

Non scrivo qui da virologo ma da comparatista che ha per diversi anni lavorato per istituzioni governative scandinave. E con quella lente, è doveroso fare alcuni distinguo per spiegare quelle scelte e le lezioni da trarne. I primi, più ovvi, sono di natura ambientale e sociale. Anche prima della pandemia, si stimava che due terzi della popolazione svedese lavorasse da casa almeno part-time e oltre la metà dei nuclei familiari svedesi fossero composti da una sola persona. Come scrisse sarcasticamente l’ex Ministro degli Esteri Carl Bildt: “Gli svedesi, soprattutto di vecchia generazione, hanno una predisposizione genetica al distanziamento sociale”.

C’è poi la forzatura politica. La destra guarda all’esperienza svedese come alla realizzazione di un disegno essenzialmente volontario e libertario. Abbinamento di per sé curioso in un bastione storico della socialdemocrazia europea. La verità è che questo presunto volontarismo libertario si iscrive in un contesto politico e culturale profondamente diverso dal resto del mondo. Come dichiarò il Primo ministro svedese Stefan Löfven all’inizio della prima ondata: “Noi che siamo adulti dobbiamo essere proprio questo: adulti. Non diffondiamo panico o voci. Nessuno è solo in questa crisi, ma ciascuna persona porta con sé una pesante responsabilità”. Alla base di questa responsabilità, quella che rende la Svezia un “paese civile”, è uno Stato efficiente e che gode di fiducia. Ma il rovescio della medaglia è accettare uno stato sociale onnipresente che è l’opposto dell’Eldorado libertario che le destre sembrano immaginare. Come scrisse negli anni ‘70 l’economista premio Nobel Gunnar Myrdal, lo stato svedese “protegge le persone da loro stesse”. Durante la pandemia, gli svedesi a mala pena protestarono per le scelte anomale del loro governo. Viene da pensare che avrebbero fatto lo stesso se il governo avesse imposto un lockdown in stile cinese.

C’è infine un aspetto più profondo che ci accomuna all’esperienza svedese e che dovremmo sforzarci di leggere. Per comprenderlo, si prenda l’esempio opposto in un paese per molti versi simile come la Danimarca. Il governo lì finì sotto inchiesta per aver abbattuto un’intera popolazione e un’industria di 17 milioni di visoni a causa di una paura di contagio poi rivelatasi infondata. Il primo ministro sostenne all’epoca di non poter aspettare le autorità sanitarie per imporre misure. Anche da noi, ci furono probabilmente degli eccessi; e a posteriori, a emergenza trascorsa, è sempre più agevole esprimere giudizi. Ma la morale della storia svedese non è tanto nella sua eccezionalità o nell’aver fatto meglio o peggio di noi. È di essersi affidata alle indicazioni del suo capo epidemiologo, per quanto controcorrente. Il governo ha mantenuto la barra dritta, non interferendo con l’autorità sanitaria anche di fronte a scelte decisamente poco ortodosse. La scienza ha dato indicazioni, la politica ha seguito. Questa, forse, è la vera lezione, la meno scontata ma anche la più basilare che l’anomalia svedese ci ha lasciato: non politicizzare la sanità e non ideologizzare la scienza.

Fabrizio Tassinari

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