La riforma degli incarichi direttivi è oramai cruciale per l’effettiva indipendenza della magistratura e lo è, ancor più, dopo le scandalose notti romane di questa primavera, che hanno condotto alle dimissioni di cinque consiglieri del Csm e, addirittura, del Procuratore generale della Cassazione. Da sempre le nomine giudiziarie rappresentano il principale oggetto della voracità correntizia e le fitte trame intorno alle future nomine dei procuratori della Repubblica di Roma, Torino, Reggio Calabria, Perugia, etc., lungi dall’essere descrivibili – come vorrebbe taluno – come evento eccezionale, patologico, etc., sono l’esempio eloquente dell’ultradecennale degrado in cui versa il Consiglio Superiore. È tempo, allora, di fermare il declino, anche per evitare pericolosi interventi volti ad addomesticare la giurisdizione col pretesto di mettere ordine…  Che fare, dunque?

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Preso atto, purtroppo, della consueta genuflessione della politica all’Anm e dell’abbandono del progetto (costituzionalissimo) del sorteggio dei candidati che, da solo, avrebbe decretato la fine dell’occupazione correntizia del Csm, non è comunque possibile accontentarsi dei “fioretti” di santità del vicepresidente Ermini, altro non fosse perché destinati, ahinoi, ai consiglieri eletti in quota alle singole correnti (sarebbe come chiedere ai tacchini di preparare il pranzo di Natale…)… È tempo, quindi, di riforme che tocchino, una volta per tutte, il core business del malaffare correntizio: il “nominificio”. Per fare ciò occorre una legge – temutissima dalla correntocrazia – che preveda il coordinamento degli Uffici “a rotazione”. Ragioni di spazio impongono brevità. Esclusa, quindi, ogni velleità sistematica, quello che si intende evidenziare è proprio l’eccezionale valore riformista della proposta in questione, la sola che – a costo zero – potrà arrestare l’attuale deriva gerarchizzante, riportando la magistratura italiana nel solco voluto dai padri costituenti. Per comprendere meglio le ragioni della rotazione, occorre partire dall’idea stessa di “magistrato” espressa nella Carta fondamentale. Tre i pilastri costituzionali su cui si regge: 1) l’indipendenza riconosciuta al singolo magistrato soggetto soltanto alla legge; 2) la pari dignità delle funzioni; 3) l’autogoverno non come potere concentrato nelle mani del Csm bensì come esperienza diffusa. Ecco, allora, il modello del magistrato: indipendente, imparziale, autorevole, dedito esclusivamente allo svolgimento del suo lavoro, moralmente libero… anche dalle personali ambizioni…

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Se confrontiamo questo modello con quello del Testo unico sulla dirigenza giudiziaria non sfugge l’insostenibilità di un sistema che, in barba al principio di autogoverno, ha dato vita a una vera oligarchia dei sedicenti migliori, ossia di quelli dotati dell’esoterica ”attitudine direttiva”. Che quella dell’attitudine direttiva sia, peraltro, una mistificazione ce lo dicono già i più elementari principi organizzativi della scienza aziendalistica. I “dirigenti” giudiziari, difatti, non possono né potranno mai dirsi “manager”. Si può esserlo senza un budget autonomo? Senza un’autonoma leva di spesa? Senza un proprio staff a cui affidare il compito di dar piede al progetto organizzativo? E sarebbe divertente, a questo proposito, verificare quanti dirigenti giudiziari hanno saputo/potuto realizzare i fantasiosi disegni sulla scorta dei quali sono stati preferiti ad altri…  Ma il modello “migliorista” non regge neanche a valle: grazie alla retorica del “migliore” e al fumoso reticolo di norme secondarie su cui essa si basa, le correnti si sono viste attribuire uno straordinario potere di condizionamento, potendo plasmare a piacimento la carriera di ogni singolo magistrato (naturalmente… a buon rendere), con gli intuibili riflessi sull’indipendenza di quel giudice. Sei della mia corrente? Avrai fermo appoggio contro il candidato dell’altra corrente, a prescindere dalla professionalità; ci sono più posti a disposizione? Ce li spartiamo equamente, uno a noi, uno a loro, e così via. «Non ce ne sono o sono pochi? Va bene, la prossima volta toccherà a loro “a prescindere” oppure faremo in modo di crearli, posponendo sapientemente il momento della delibera».

Tutte cose arcinote, innegabili, trasversali a tutte le correnti, nessuna esclusa, secondo i variabili rapporti di forza. Come non ricordare, del resto, le amare considerazioni del professor Mazzamuto, ex componente laico del Csm, che avendo visto all’opera i signori delle tessere sottolineò l’assenza di «…un’adeguata garanzia “interna” nei confronti delle dinamiche corporative della stessa magistratura»?  E ancora, sempre ragionando “a valle”, non sfugge il fall out negativo dell’ideologia migliorista: l’invito ai magistrati – sin dal tempo zero – a percorrere a testa bassa quel cammino della speranza fatto di inconsistenti “medagliette” extracurricolari, principalmente legate all’associazionismo giudiziario, buone solo a distrarli dai doveri quotidiani nella purtroppo diffusa convinzione del lavoro come…tempo sottratto alla carriera. La patologia del sistema, del resto, è resa evidente anche dal rilievo per cui – sulla carta – circa il 90% dei magistrati è escluso dall’esperienza di autogoverno; di fatto, il Testo unico sulla dirigenza ha dato vita a un corpo di magistrati eterodiretti da un manipolo di autogovernanti “a vita”, con buona pace del modello costituzionale. Sono noti, poi, i meccanismi striscianti di subordinazione favoriti da questo sistema, quali – giusto per fare qualche esempio – la determinazione dei criteri di distribuzione degli affari, dei carichi di lavoro individuali, della pretesa produttiva pro capite (sempre crescente, anno dopo anno), delle modalità di lavoro, etc., il tutto sotto il simpatico schiaffo della leva disciplinare.