Con la prima prova scritta dell’esame di Stato arriva la consueta annuale botta di nostalgia. È il giorno in cui tanti adulti sentono il bisogno di comunicare pubblicamente il proprio gradimento per le tracce, quali avrebbero scelto e persino come le avrebbero svolte. I giornali si preoccupano di chiederlo agli influencer, nessuno si preoccupa di chiederlo ai diretti interessati. Ho su questo un osservatorio privilegiato, dato che ho la fortuna (in verità è un obbligo) di leggere e valutare alcuni di questi testi. E sempre, quando sono chiamato a farlo, mi anima una domanda di cui solitamente non si occupano giornali e tv: cosa ci hanno visto? Cosa vede un diciannovenne del 2024, nelle “parole-pietre” con cui Giuseppe Ungaretti dà forma alla propria esperienza di “pellegrinaggio” in trincea (traccia A1)?

Questi ragazzi non hanno vissuto la guerra, ma si sentono in diritto di parlare lo stesso del dolore, come richiede la consegna. E non per caso chiamano in causa il ragazzo di Recanati, perché lui, come loro e a differenza di Ungaretti, si lamentava così, “a folle”, senza guerre addosso, perché, anche nel pieno comfort, sentiva di non essere contento. Il ragazzo che in adolescenza sentì, poi teorizzò e poi addirittura cantò, che l’infelicità è destino, è attaccata addosso indipendentemente da dove si nasce e in che momento. Anche loro non sembrano scoppiare di gioia per questo mondo, e così si alleano subito con Luigi Pirandello e il suo Serafino Gubbio operatore (traccia A2), che il “va tutto bene” lo esprime come sarcastica, antifrastica presa per i fondelli, annunciando per tutti ”un bel prodotto e un bel divertimento”. Stimolati dalla sua amara ironia confessano che il futuro li spaventa, che anche l’Intelligenza Artificiale li spaventa, e si stanno convincendo che no, non sarà un mondo bellissimo! Sulla guerra è un po’ diverso. Fanno sermoni geopolitici sull’equilibrio del terrore in Guerra Fredda (traccia B1), con sensati parallelismi con quanto accade oggi, ma non ammettono la sincera paura, non c’è chi dice “ho paura, non voglio che arrivi qui”. Forse, semplicemente, non ci vogliono neanche pensare.

È un silenzio diverso da quello della traccia sul silenzio, a partire da una riflessione di Nicoletta Polla-Mattiot (B3), che potrebbe ridursi all’abusata retorica dello spazio di ascolto, ma alcuni di loro vanno oltre, non gli interessa un silenzio come regola o metodo, gli interessa un silenzio “di protezione”. Sentono che le cose vere, profondamente vere, vanno protette da qualcosa. E così c’è chi tira fuori a sorpresa una poesia immensa di Iacopone da Todi (1230-1306), “De l’amor muto”, che vibra dell’ossessione di non disperdere un amore che il parlare porterebbe “fuori”, in un’esteriorità dove si potrebbe non capire, dove potrebbe anche morire. Quando a Ungaretti chiedevano quale fosse la poesia più bella della letteratura italiana – lo ricorda spesso il poeta Davide Rondoni – lui, chissà perché, indicava proprio questa.

La paura di non perdere, o disperdere, investe anche la traccia sulla scrittura diaristico (C2). C’è chi lega l’importanza del “segnare” al fatto che sono le cose (i fatti, le giornate, gli incontri) a segnare noi, a lasciarci segni, nel dramma epocale di Anna Frank o nel vuoto apparente di un aperitivo serale in costa ionica lucana. Con la traccia sull’imperfezione (C1) ho dovuto incassare. Mi è sembrato che tutti insieme, a una sola voce, abbiano voluto gridare il sollievo di poter essere imperfetti per dirci: “smettetela di valutarci sempre, di farci sentire continuamente inadeguati e sotto esame”. Questi ragazzi non vogliono sentirsi sotto pressione, non vogliono troppi richiami di civismo, non vogliono fingersi contenti. Tra slanci egocentrici e impennate di verità, anche in queste pagine sono lì a dirci, come sempre, semplicemente, “ci sono, guardatemi!”. E del resto noi, quando sentiamo il desiderio di dire che traccia avremmo fatto, cosa stiamo esprimendo se non questo? Noi, con Serafino Gubbio, e con Giuseppe Ungaretti

Pino Suriano

Autore