Dicono, dalle parti della Lega, che “fino a domenica sarà un crescendo. Poi si fermerà, almeno un po’”. Domenica perché c’è Pontida, la festa della Lega, ci sarà Marine Le Pen come ospite d’onore e lui, “Matteo (Salvini, ndr) sta preparando il clima giusto”. Più facile, invece, che il leader della Lega non tolga più il piede dell’acceleratore fino a giugno prossimo quando si voterà per rinnovare i 705 membri del Parlamento europeo.

Perché la strategia è chiara: fare a Fratelli d’Italia quello i Fratelli hanno fatto alla Lega quando ha governato, prima con il Conte 1 e poi con Draghi. In una parola, svuotarli. Non è chiaro a che altezza Salvini abbia piazzato l’asticella. È assolutamente chiaro che voglia essere “stabilmente nelle due cifre”. Si tratta di riprendere almeno parte dei voti che Meloni gli ha sottratto. Il dettaglio è che questi due oggi governano insieme. E che Lui fa opposizione a Lei.

Il disegno è fin troppo chiaro e coinvolge tutti i fronti aperti per il governo, dall’immigrazione alla legge di Bilancio, dalle alleanze per le Europee fino alla nomina di Mario Draghi come consulente per l’Europa sulla competitività, incarico che si tira dietro molte sfide europee a cominciare dalla forma amministrativa – federale sì o no – e poi anche politica che si vorrà dare il vecchio continente in un mondo che sta cambiando così in fretta.

Al di là di un po’ di gioco delle parti, i motivi di reale tensione tra i due leader stanno complicando la gestione della maggioranza. E la tenuta del governo. Tra questi c’è senza dubbio l’immigrazione. L’ultima – due settimane fa – decisione di Meloni di centralizzare il dossier a Palazzo Chigi e affidarlo al sempre più “potente” e “ascoltato” Alfredo Mantovano ha mandato in bestia Salvini.

Dopo la tragedia di Cutro il Governo ha dovuto cambiare approccio, le operazioni di search and rescue nelle acque di competenza italiana procedono a ritmo serrato, la soluzione europea è stata incardinata – canali legali di ingresso e accordi con i paesi di partenza – ma non può dare risultati nell’immediato.

Serve pazienza, la soluzione è vicina anche perché l’Europa ha bisogno di mano d’opera”, ha detto Von der Leyen in contatto in queste ore con la premier Meloni. Il numero degli sbarchi – 7000 persone in 48 ore, 136 mila dall’inizio dell’anno, più del doppio dell’anno scorso – e l’inarrestabile via vai di barchini di ferro a cui abbiano assistito in questi giorni sta però mettendo nell’angolo la premier: da un punto di vista mediatico non è più possibile ignorare la situazione (ci sono riusciti finora); Salvini ha rotto ogni freno e attacca a testa bassa. Usando gli stessi argomenti che avrebbe usato Meloni leader dell’opposizione.

L’unica cosa che funziona sono i miei decreti, dobbiamo chiudere i porti, fare il muro navale, basta sbarchi” ripete da giorni il segretario della Lega aggiungendo ridicole ipotesi di complotti. Il governo, inoltre, ancora non sa cosa fare del promesso decreto sicurezza per aumentare le espulsioni. La verità è che non esiste un modo. Il Viminale lo sa bene. E non si può certo tornare a vecchi ed incostituzionali decreti.

Giorgia Meloni ha le mani legate – come chiunque davanti a fenomeni così epocali – ed è costretta a siparietti come quello di ieri con Orban a Budapest quando ha detto: “Combattiamo per difendere Dio, le famiglie e l’identità”, il solito ritornello identitario e sovranista, in puro stile Vox. Giusto per stare dietro a Salvini.

Un altro tema che allontana i due leader è la partita europea su cui da ieri è tornata a pesare la figura di Mario Draghi. Salvini la subisce. Meloni deve far buon viso. Nessuno dei due ne sapeva nulla. Si tratta di una consulenza mirata, è vero. Ma se si parla di Mario Draghi, di un “whatever it takes” parte seconda sulla competitività del made in Europe e tutto questo coincide con un articolo-manifesto pubblicato dall’ex premier su Economist una settimana fa e l’inizio della campagna elettorale per le Europee, insomma, difficile credere che la collaborazione non sia destinata ad assumere altre forme (smentite dallo staff dell’interessato).

“Dobbiamo guardare avanti e stabilire come rimanere competitivi in questa fase. Per questo motivo ho chiesto a Mario Draghi, una delle migliori menti economiche d’Europa, di preparare un rapporto sulla competitività dell’Europa. L’Unione farà ‘whatever it takes’ per mantenere il suo vantaggio competitivo” ha detto Von der Leyen che nei fatti si è candidata per un secondo mandato con un programma economico molto definito. E la supervisione di Draghi?

Non è casuale che l’incarico sia arrivato dopo l’articolo sull’Economist in cui l’ex premier ha tratteggiato un “periodo molto complicato” in cui “l’Unione di prima non c’è più” perché hanno ceduto i pilastri su cui si reggeva la sua prosperità: “L’America per la sicurezza, la Cina per l’export, la Russia per l’energia”. Da qui la necessità di una nuova Europa, con nuove regole, anche nel bilancio, e più sovranità condivisa indispensabile per affrontare le sfide del futuro. In una parola un’Europa federale. Che per le destre, tutte, anche quella da cui viene Meloni, è una sorta di bestemmia.

Va visto con lenti progressive il discorso di Von der Leyen e l’incarico a Draghi. Come ha fatto Manfred Weber, leader del Ppe che in queste ore ha riposto ogni ipotesi di allargamento a destra della prossima maggioranza europea. Maggioranza in cui Meloni era convinta di dare le carte grazie ai “suoi” Conservatori. Anche senza Salvini che si ostina a stare fermo su uno schema di destra-destra al governo dell’Europa che verrà. Adesso è tutto nuovamente in alto mare. E Giorgia è andata da Orban per capirci qualcosa.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.