Una pioggia di soldi. Per risolvere tanti, forse troppi, problemi. Nell’ordine: tenere a bada la curva del contagio; non disperdere il tesoretto di fiducia che il governo, e soprattutto il premier, hanno conquistato nella fase 1 della pandemia, quando l’Italia si fece chiudere in casa obbediente fidandosi delle istituzioni. Adesso, invece, quel capitale di fiducia è seriamente ipotecato. E ancora: tenere a bada la maggioranza che negli ultimi giorni è andata in frantumi e non solo per il pressing di Italia viva che chiede di rivedere le misure del Dpcm, una mission quasi impossibile. Tra 5 Stelle e Pd è tornata la guerriglia di cui il botta e risposta costante tra il ministro Franceschini e il ministro Spadafora è solo la punta dell’iceberg. L’ultima vendetta risale a ieri sera, bicchiere di cicuta alla fine del cdm: il Pd ha deciso di bloccare la riforma dello sport.

Il ministro della Cultura deve ancora consumare la vendetta per non aver potuto tenere aperti i cinema fino alle 18. “Allora anche le piscine” disse Spadafora. Risultato: tutto chiuso sempre. La febbre è sempre più alta tra Pd e 5 Stelle nelle riunioni dei capidelegazione della maggioranza, Spadafora ha ormai quasi spodestato Bonafede, che sarebbe il capodelegazione dei 5 Stelle. E anche questo è diventato un problema. Uno dei tanti. Uno in più. Al netto poi di tutto ciò di cui non si parla più – Aspi, Alitalia, i progetti del Recovery fund, la rete unica, il debito pubblico e la mitizzata ripartenza – e dell’ultimo fronte che si è aggiunto nelle ultime 48 ore e ogni notte leva al Professore anche quel poco di sonno che gli resta: la guerriglia urbana che sta contaminando tutte le città, dal nord al sud, da Catania a Trieste. Il virus della rabbia e della frustrazione che si somma a quello del Covid: un mix che fa tremare i polsi a chiunque abbia responsabilità di governo. Basteranno 5-6 miliardi di “ristori” per risolvere, congelare, questa lista di criticità?

Erano tanti, ieri, i convitati di pietra “presenti” alla riunione del Consiglio dei ministri. Nessuno di loro si è “alzato” alla fine pienamente soddisfatto. Nessuno di loro è stato realmente affrontato. È durato appena un’ora il Consiglio dei ministri che ieri pomeriggio ha approvato il “decreto Ristori” che è l’unica e ultima chance del premier Conte per riprendere in mano la situazione. Ai settori che hanno dovuto chiudere in tutto o in parte sono stati destinati tra i 4 e i 5 miliardi. Gualtieri li ha trovati qua e là tra la pieghe del bilancio 2020. La riunione viene raccontata “veloce, anzi spiccia, senza occasioni per poter interloquire visto che subito dopo Conte è dovuto andare al Quirinale per il Consiglio supremo di difesa”. Il ministro Gualtieri ha letto le linee generali del provvedimento ma ai ministri non è stato distribuito neppure un testo del decreto. I ristori (così li chiama Conte) arriveranno fino al 200 per cento del fatturato del mese dello scorso anno, saranno erogati direttamente dall’agenzia delle entrate, e arriveranno su conti correnti entro la metà di novembre.

Dovrebbero riguardare circa 325 mila attività tra bar, ristoranti, cinema, palestre. Franceschini assicura un miliardo per cultura e turismo, “ristoro immediato per cinema e teatri, 1.000 euro per tutti i lavoratori autonomi e intermittenti dello spettacolo, proroga della cassa integrazione e indennità speciali per i settori del turismo”. La ministra Catalfo prova a strappare un po’ di pace sociale con il Reddito di emergenza (tra i 400 e gli 800 euro) per 258mila nuclei familiari. E via di questo passo con indennizzi e ristori. Un mezzo tentativo di rispondere alle richieste di Italia viva che “non ha mai condiviso le misure dell’ultimo Dpcm nel merito ma soprattutto nel metodo” e ha chiesto modifiche, è la nascita del Call center Immuni, cioè la rete di persone che proverà, finalmente, a far funzionare la app inserendo dati e rispondendo telefonicamente alle persone per garantire la sorveglianza sanitaria, l’informazione e l’accompagnamento alle persone che vengono “allertate” da Immuni.

Per il resto è stata una riunione gelida. Con troppi non detti. Uno su tutti: se queste sono misure tampone per la durata del Dpcm (il 24 novembre), significa che il 25 siamo sicuri che l’incubo sarà finito, almeno domato? Oppure che dovremo iniziare ancora una volta a cercare risorse aggiuntive per supportare l’economia del paese? «La fretta e le promesse sono cattive consigliere», commenta a fine riunione un ministro. «Certo, abbiamo approvato le linee guida del decreto, è ovvio. Ma non sappiamo nulla, non abbiamo neppure un testo… e poi si stupiscono se ci sono critiche e richieste di modificare i provvedimenti». Scarsa condivisione delle decisioni: ecco l’accusa che parte della stessa maggioranza, e non solo Italia viva, fa al premier e al Pd che siede al governo. Il nodo delle modifiche al Dpcm è stato, appunto, uno dei tanti convitati di pietra della riunione. Difficilmente Conte accetterà di correggere qualcosa. Non subito almeno.

È stato però riconosciuto che c’è un problema di metodo e che non sono solo bizze dei renziani visto che in serata, ieri, si sono riuniti i capigruppo di maggioranza per valutare insieme le misure introdotte con il nuovo Dpcm. Tutti i parlamentari hanno raccolto il dissenso sui territori. E di quel dissenso, adesso, si vogliono fare portavoce. Per provare a trovare una linea comune da esporre a Conte domani quando sarà in aula alla Camera e al Senato per spiegare il nuovo lockdown italiano. Saranno comunicazioni. E non un’informativa. Il rischio del voto viene così evitato. Impossibile non pensare, però, che le lacerazioni della maggioranza siano troppe anche per la capacità di sintesi di uno come Conte.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.