Bonafede spieghi chi si è opposto alla mia nomina al Dap (perché io non lo so). Il membro del Csm Nino Di Matteo, sedotto e abbandonato dal Guardasigilli Alfonso Bonafede che due anni fa gli aveva proposto la guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per poi ritirare improvvisamente l’offerta, non lascia la sfida ma neanche riesce a rilanciare. Non può infatti provare che Bonafede sia stato influenzato dalle proteste dei mafiosi che in carcere si erano sollevati all’ipotesi di finire sotto la sua giurisdizione.  «Cinquantuno boss al 41 bis hanno chiesto di parlare con i loro magistrati come minaccia alla mia probabile nomina», afferma lui orgoglioso.

Ma non c’è nessuna ennesima “trattativa Stato-Mafia” riscontrabile. Ieri Di Matteo è stato audito in Commissione parlamentare antimafia per raccontare la sua versione dei fatti in merito a una vicenda, la sua mancata nomina al Dap, che lui stesso definisce una “questione istituzionale”. Sullo sfondo la pesante accusa rivolta al ministro della Giustizia da parte di un pezzo dell’opinione pubblica di non aver consegnato all’icona antimafia le chiavi delle carceri italiane perché sgradito ai boss mafiosi che delle prigioni sono gli ospiti più illustri. Come se il grillino Bonafede, pur ministro in quota “giustizialismo”, si fosse fatto intimorire dai boss, cestinando l’ipotesi Di Matteo alla guida del Dap e preferendogli il collega Francesco Basentini perché ritenuto più rassicurante dai detenuti mafiosi. Su questo sospetto si è concretizzata anche una (fallita) mozione di sfiducia ai danni del Guardasigilli da parte del centrodestra.

Ieri il vangelo di Di Matteo, in un lungo e dettagliato discorso già scritto ma pronunciato con una voce bassa che tradiva l’ emozione, voleva tracciare l’Apocalisse di Bonafede, in aula più volte evocato con certo zelo minaccioso, come futuro testimone della commissione Antimafia.
La versione proposta dal pm è chiara. Il 18 giugno del 2018 viene contattato al telefono dal Guardasigilli che gli propone di “scegliere subito” tra il vertice del Dap e la Direzione degli Affari penali, prospettato come “il posto che fu di Giovanni Falcone”. Di Matteo chiude il telefono e chiede tempo ma ha già deciso: vuole occuparsi del sistema penitenziario. Il giorno dopo incontra Bonafede al ministero per quella che ritiene una formalità, ma il membro del Csm proverà invece “grande sorpresa”. Stando a questo racconto il Guardasigilli avrebbe da subito provato a farlo disinnamorare del Dap, “ridimensionandone” fortemente il ruolo, per il ministro principalmente dedito a “vicende di appalti e sindacati”.

Per Di Matteo è un errore di valutazione, tanto da dire alla commissione: «Ritengo invece l’organizzazione del sistema penitenziario fondamentale nella lotta alla mafia, anche per la gestione dei collaboratori e dei pentiti». Il pentastellato invece insiste nella demolizione dell’incarico, che pur gli aveva proposto il giorno prima, e prospetta al pm la Direzione degli Affari penali. All’epoca in quel ruolo c’era Donatella Donati, ma il ministro gli promette che “il posto sarà libero a settembre”, chiedendogli di mandare un “curriculum che sarà sicuramente approvato” per un ruolo che comunque, rileva l’ormai anti pentastellato Mario Giarrusso, deve essere “sottoposto a una sorta di concorso”. Bonafede prova a solleticarlo chiamando in causa Falcone, che ebbe quell’incarico con l’allora Guardasigilli Claudio Martelli, ma il pm afferma che nel frattempo il ruolo “è cambiato, perdendo l’interlocuzione diretta con il ministro”.

Ma dietro l’insistenza di Bonafede c’è anche la già decisa nomina di un altro al suo posto: «In quell’occasione, 24 ore dopo avermi proposto per il vertice del Dap, il ministro mi disse che aveva pensato a Basentini, mi chiese se lo conoscevo, ma gli dissi di no. In effetti ho poi controllato che la richiesta di collocamento fuori ruolo di Francesco Basentini è del 19 giugno, quindi lo stesso giorno dell’incontro di Bonafede con me». Un vero “dietrofront” che sa di smacco per il pm: «Ci rimasi male perché non ci si comporta così con un magistrato che viene da 25 anni di importante lotta alla mafia, minacciato di morte da Riina, con l’esplosivo già pronto per me, che vivo con un livello di protezione eccezionale». La proposta rimasta è quindi una sola, gli Affari penali. Il 20 giugno i due si rincontrano e Di Matteo dice no. Sull’uscio Bonafede gli avrebbe detto «ci sto rimanendo male perché per quest’altro incarico non ci saranno dinieghi, o mancati gradimenti che tengano». Come se “qualcuno” gli avesse opposto un veto al vertice del Dap.

Facile pensare “mafia”, a maggior ragione dopo che anche ieri il pm ha ostentato le relazioni dalle carceri che attestano le proteste di diversi detenuti contro la sua nomina. È un sospetto grave che un pm non dovrebbe tacere. Ma allora perché Di Matteo è stato in silenzio per questi due anni? Lui parla di “rispetto verso il Guardasigilli e il collega Basentini”. E cosa è scattato il mese scorso da portarlo a intervenire in diretta da Giletti e attaccare Bonafede per il mancato incarico? “Le scarcerazioni di massa sono state un segnale preoccupante dato alla mafia, c’erano state anche le rivolte, Basentini non era più al Dap e io ero stato tirato nuovamente in ballo. Era tempo di dire la verità”. Ma finora l’unica verità accertata è che il “mancato gradimento” alla nomina di Di Matteo fosse proprio di Bonafede, passato per ironica nemesi sul banco dei sospettati e dei tessitori di trattative forse invisibili. Ma pure un ministro giustizialista come lui ha il diritto di non dare un incarico a un’icona antimafia.