Se uno ragionasse con la testa dei 5 Stelle, dei quali il ministro Bonafede è un alfiere, ci sarebbe poco da discutere: il ministro se ne deve andare a casa. Perché da più di una settimana su di lui pesa il sospetto, avanzato da un eroe del suo partito (e cioè il Pm Nino Di Matteo) di qualcosa che a occhio e croce può configurarsi come il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Bonafede avrebbe preso ordini dalla mafia quando ha dovuto scegliere il capo del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Uno dice: vabbè, ma è solo un sospetto. Non c’è l’ombra di una prova. Certo, certo, per molti (o forse per pochi: diciamo per i liberali) le cose stanno così. Ma non per i 5 Stelle che hanno sempre detto – facendo infuriare i garantisti – che per un politico non vale la presunzione di innocenza.

Che se su di te, politico, cala un sospetto, fosse pure per una tangente, o una raccomandazione, o una tesi di laurea copiata, prima di tutto ti dimetti, poi ti difendi. Qui non stiamo parlando di una tesi di laurea copiata, parliamo della possibilità che il ministro abbia preso ordini dalla mafia. E l’accusa non viene da un pentito – della cui credibilità tutti possono dubitare, e in genere dubitano a ragione – viene da un Pm delle cui capacità professionali io personalmente ho sempre dubitato, ma che sono sempre state considerate a prova di bomba dai 5 Stelle. Non a caso lo stesso Bonafede aveva immaginato di farlo capo del Dap, sebbene Di Matteo non abbia nessuna esperienza di politica e di amministrazione carceraria, o addirittura direttore degli affari penali, ripristinando un incarico che è stato di Falcone. E allora, che ci sta a fare lì, Bonafede, ancora al suo posto? Cosa avrebbe detto e quanto avrebbe strepitato se una cosa del genere fosse successa a un esponente di Forza Italia, o del partito di Renzi, o magari pure della Lega? Mamma mia, vengono i brividi a pensarci.

Invece ieri Bonafede è andato nell’aula di Montecitorio e ha balbettato un po’ di scuse, ha giurato che non aveva subito nessuna pressione nella nomina di Basentini a capo del Dap e nella bocciatura di Di Matteo, ha spiegato che le scarcerazioni dei mafiosi non le decide lui ma i giudici di sorveglianza e i Gip. E poi ha rivendicato un suo decreto (quello richiesto a gran voce e ottenuto da Repubblica) che prevede che tutti quelli che sono usciti siano rispediti dentro il carcere. Con questo giurando che lui, anche se non si dimette, è e resta il più manettaro di tutti i manettari del mondo. Anche qui bisognerebbe capire bene come mai quando succedono queste cose ognuno ragiona come gli pare a seconda di chi sono le persone coinvolte. Prendiamo il caso della trattativa Stato-mafia (di quella che ci sarebbe stata nel 92-93 e per la quale si celebra un processo, per quanto strampalato). Di Matteo sostiene che i colpevoli di quella trattativa sono Dell’Utri e forse anche Berlusconi.

E la prova che la trattativa ci fu consisterebbe nel fatto che furono fatti uscire dal 41 bis circa 300 detenuti. In quel caso la decisione la prese la Corte Costituzionale, e la eseguì il ministro Conso (centrosinistra). Come poteva essere la posta di una trattativa svolta, evidentemente, l’anno successivo da Dell’Utri e Berlusconi (che andò al governo solo nella primavera del 94 e che non aveva nessuna possibilità di influenzare la revoca del 41 bis)? È probabile che a Di Matteo non sia chiarissimo chi ha il potere di scarcerare e chi ha il potere di far uscire dal 41 bis. Ma il problema resta. Anche perché la probabilità che ci sia stata una trattativa Stato-mafia nel 92-93 non è superiore alla possibilità che ci sia stata nel 2018 con protagonista Bonafede. Se fosse vero quel che dice Di Matteo, di trattativa Stato-mafia si tratterebbe.

Qual è il problema vero? Torniamo a ragionare con la testa nostra e quindi ad escludere la richiesta di dimissioni di Bonafede, che avrebbe un senso solo se avanzata doverosamente dai 5 Stelle. Resta un’altra questione, ineludibile. Se, come appare piuttosto evidente, Bonafede non ha colpe, è altrettanto evidente che le colpe le ha Di Matteo. Che è un Pm e con le accuse al ministro (e prima ancora ai suoi colleghi del tribunale di sorveglianza di Milano) ha violato tutte le norme di comportamento che un magistrato deve rispettare. (Pensate che un procuratore generale è stato degradato sul campo dal Csm, sollecitato dal ministro, per avere criticato Gratteri). Il ministro non può sfuggire a questo suo dovere: promuovere una indagine presso il Csm per accertare se non è il caso di condurre un’azione disciplinare contro Di Matteo. Non può sottrarsi. Se si sottraesse creerebbe una situazione di totale illegalità. Oppure ammetterebbe implicitamente di essere colpevole.

P.S. Ieri sera i 5 Stelle hanno diffuso la seguente nota stampa: “Bonafede anche oggi, in aula, è stato chiarissimo: nessuna interferenza diretta o indiretta nella nomina del capo del Dap, nel 2018. Questa è la verità, e sono inaccettabili attacchi o illazioni da parte di chi è ben lungi dal poter vantare la nostra stessa trasparenza e il nostro impegno nella lotta alla mafia”. Chissà se chi ha scritto la nota si è accorto della ferocia con la quale stava attaccando Di Matteo (l’autore delle illazioni non può che essere lui) accusato, magari anche a ragione, di essere un incompetente nella lotta alla mafia…

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.