Oramai tutto quello che accade al Dap non sfugge a Giletti, che sta sviluppando su di esso un’autentica campagna in più puntate. Domenica la campagna ha avuto un’ulteriore escalation. La settimana prima nel mirino era finito Basentini e solo pochi giorni dopo ci ha lasciato lo scalpo. Il risultato paradossale della seconda puntata è che, con un paio di eccezioni, si è trattato di uno scontro senza esclusione di colpi fra giustizialisti in servizio permanente effettivo. Per non farsi mancar nulla infatti Giletti ha messo in campo anche il sindaco di Napoli de Magistris, che ovviamente si è trovato benissimo in questa parte e che sembrava addirittura un Pm ancora in funzione e anche un membro del Csm.

È stato presentato un elenco di circa 40 carcerati ad altissimo livello di pericolosità mafiosa spostati agli arresti domiciliari per ragioni di salute; poi è risultato che al 41bis di essi ce n’erano solo 3 e quindi l’impalcatura politica costruita secondo la quale si era davanti ad una “resa dello Stato” dopo i recenti moti nelle carceri è risultata del tutto ridimensionata. Infatti, a nostro avviso, lo Stato non si arrende a nessuno se 3 criminali finiscono agli arresti domiciliari. Siccome però Giletti deve avere uno scalpo, questa parte della trasmissione si è conclusa con l’invito, urlato come un ordine, che dopo Basentini venga “eliminata” anche la dirigente del Dap che si era occupata del caso Zagaria, ma il punto culminante della trasmissione è consistito in uno scontro durissimo fra ultra giustizialisti (Giletti, il ministro Bonafede, il Pm Di Matteo, il Pm Catello Maresca, l’on. Dino Giarrusso, molto a disagio nei panni per lui inconsueti di avvocato difensore del ministro, il comandante Ultimo), che ha avuto per oggetto la seguente questione: il delitto di lesa maestà nei confronti del Pm Di Matteo presentato come una sorta di icona protagonista di una vicenda politico-giuridica, quella della pretesa trattativa Stato-mafia su cui invece è in corso una durissima discussione perché contestata alla radice da molti giuristi, storici, magistrati e avvocati.

Il ministro Bonafede è finito sotto accusa quasi che fosse un pericoloso garantista con tendenze criminogene e amicizie pericolose per una colpa imperdonabile. Stando a Di Matteo che, nella sorpresa generale, a un certo punto ha fatto una telefonata a Giletti, il malcapitato Bonafede nella sua qualità di ministro della Giustizia aveva offerto al Pm Di Matteo di scegliere fra due incarichi, quello di capo del Dap e quello di direttore generale degli Affari Penali del ministero della Giustizia, per capirci il posto di cui fu titolare Giovanni Falcone. Di conseguenza Bonafede si era mosso sul terreno del più organico legame a una tendenza ben precisa della magistratura, quella che fa riferimento a Davigo.
Quando si sparse la voce sulla possibilità che Di Matteo andasse al Dap alcuni mafiosi di alto lignaggio si fecero intercettare esprimendo la loro totale contrarietà a quella nomina. Nel frattempo, Di Matteo si prese 48 ore per riflettere, al termine delle quali comunicò a Bonafede che preferiva l’incarico al Dap.

Nel successivo incontro (è sempre Di Matteo che ha raccontato i termini di questo colloquio a due assai riservato) mentre Di Matteo comunicò di aver scelto la carica di capo del Dap a quel punto il ministro Bonafede (trattato nel corso della trasmissione un po’ da tutti, da Giletti a de Magistris allo stesso Pm Catello Maresca come se fosse un ragazzo di bottega) gli rispondeva che avrebbe preferito averlo con sé al ministero nella carica altissima di direttore degli Affari Penali che era stata addirittura di Falcone e che ha poteri e un ruolo molto rilevanti.

A quel punto, siccome Giletti ha stabilito che la carica del Dap è mille volte superiore per importanza a quella di direttore degli Affari Penali egli ha investito Bonafede del delitto di lesa maestà spalleggiato da de Magistris, dal comandante Ultimo, dal Pm Maresca, mentre a quel punto l’avvocato difensore batteva in ritirata: come si era permesso Bonafede di non accettare in ginocchio la scelta fatta dall’icona e invece gli aveva controproposto la carica di direttore degli Affari Penali a quel punto considerata dagli interlocutori un incarico del tutto subalterno e trascurabile? Allora Bonafede è stato trattato non come un ministro dotato della sua autonomia di giudizio e di decisione, ma come una sorta di passacarte, di esecutore in automatico della scelta fatta dall’icona che nella gerarchia dei giustizialisti ha una collocazione molto superiore anche a quella del ministro.

È così avvenuto che il ministro della Giustizia più ottusamente giustizialista della storia della Repubblica è stato letteralmente sballottato fra diversi accusatori uno più scatenato dell’altro. Vedendo l’andamento di quel pezzo di trasmissione è risultata del tutto confermata una famosa battuta di Pietro Nenni: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura».