Un membro del Csm, a un’ora pericolosamente tarda della sera, interviene in una trasmissione di quelle che fanno, e seguono, coloro che evidentemente non hanno mai visto Quinto Potere, altrimenti si vergognerebbero. Il magistrato, che non è un Pm in servizio, racconta di quando il ministro in carica, allora alleato di Salvini, dopo avergli offerto un posto, s’era rimangiato l’offerta nel giro di ventiquattro ore. Fin qui, a parte la stravaganza di un membro di organo di rilevanza costituzionale che telefona a una trasmissione trash, niente di che. Niente di che da queste parti, ovviamente, avvezzi come siamo al fatto che in nome della notorietà – vera o usurpata alla luce dei risultati non conta – un Pm possa essere nominato al vertice del Dap anche senza avere alcuna esperienza nel campo dell’esecuzione penale, e neppure nell’amministrazione, ma solo in nome della glorificazione del 41 bis.

Come se la pena, e anche i diritti delle persone private della libertà, di cui la Costituzione parla agli articoli 13 e 27, siano cose da trattare in maniera demagogica proprio come fanno le tricoteuse manettare star del giornalismo italiano da anni. Comunque il racconto si risolve nella cronistoria di una nomina sfumata al miglio finale, insomma di uno che era stato scartato quasi al traguardo. Il che rende dal punto di vista umano più che giustificato anche se un po’ tardivo il suo, diciamo così, disappunto, ma non certo d’interesse pubblico la cosa. Se non che nel racconto si accosta la circostanza che l’eventuale nomina sarebbe stata accolta con terrore all’interno delle carceri, tanto che le puntuali intercettazioni delle reazioni dei detenuti, che evidentemente vivono registrati h 24 come succedeva in The Truman Show, sarebbero state talmente preoccupate che uno, napoletano, avrebbe detto che in tale sventurata ipotesi bisognava “fare l’ammuina”.

Notizia che in trasmissione viene commentata da Giletti, sempre più immedesimato nel ruolo a suo tempo interpretato da Peter Finch, come una dichiarazione di guerra. Ora, accostare due fatti, anche senza dire che l’uno, la mancata nomina, dipende dall’altro, cioè la reazione nelle carceri, per trarne la conclusione che Di Matteo non è assurto al vertice del Dap perché il ministro ha ceduto alle “pressioni dei boss”, dovrebbe far ridere tutta l’Italia, tanto è sconclusionata la logica che sorregge l’ipotesi, ma da noi la logica per certi media player è optional, mentre l’insinuazione e il sospetto sono l’anticamera della verità. Ed ecco quindi che per il Peter Finch de noantri è questione di un attimo: guardando direttamente in macchina prorompe in una fatwa antimafia il cui succo è che il ministro deve spiegare perché ha commesso come minimo il delitto di lesa maestà. Accusato di essere messo quasi allo stesso piano di un Andreotti qualsiasi e svegliato da qualche insonne funzionario, il ministro in carica fa quello che sembra normale solo dalle parti nostre: telefona direttamente in trasmissione.

Il problema è che poi non fa quello che un ministro dovrebbe fare, cioè dire in primo luogo che un membro togato del Csm non può operare in quel modo e in secondo luogo che la decisione di chi nominare o non nominare a capo del Dap è una faccenda politica, che gli compete e che non deve renderne conto né al diretto interessato né a un imbonitore televisivo. No, con eloquio al solito incerto, e l’aria di chi deve rendere conto, il ministro tenta di spiegare che evidentemente c’è stato un fraintendimento. Come fosse alla Esselunga spiega che aveva proposto due prodotti a scelta, poi aveva pensato che uno dei due andasse meglio, e arriva persino a tirare in ballo il povero Falcone, dicendo che la seconda carica gli era appartenuta e quindi era prestigiosa.

Insomma, si assiste alla scena di un ministro che balbetta giustificazioni mentre Giletti lo incalza ribadendo che non si può trattare così, come una persona qualsiasi, il Di Matteo di turno. Nessuno, sia detto per inciso, nello studio quella sera, e su tutti i media sui quali rimbalza la notizia nei giorni successivi, nota che una delle frasi intercettate significa testualmente il contrario del catastrofico e minaccioso intento che gli viene attribuito. Se invece di un cattivo imitatore di Peter Finch in studio ci fosse stato Eduardo, avrebbe infatti spiegato agli astanti che l’ordine “facite l’ammuina”, si narra fosse in voga nella Regia Marina Borbonica in occasione delle visite sulle navi dei vertici militari, quando, per farsi vedere operosi, si ordinava all’equipaggio che “tutti quelli che stanno a basso vanno in coppa, e quelli in coppa vanno abbasso, quelli che stanno a dritta vanno a manca e quelli a manca vanno dritta; passando tutti dallo stesso pertuso”.

Insomma, significa facciamo finta o al massimo confusione. Purtroppo sul set di Quinto Potere non si brilla né per la conoscenza delle regole istituzionali né per quelle della storia e la cosa, invece di finire a sberleffi diventa un caso politico di primo piano. E come al solito la politica, quando si accosta a questi temi, dà il peggio di se. Il ministro, che campa e fa fortuna politica strizzando l’occhio alle tricoteuse di cui sopra, sa anche che la strada per la ghigliottina è stata percorsa alla fine proprio dai giacobini che l’avevano aperta, e dunque, inizialmente, spalleggiato dalle più lucide menti del giornalismo forcaiolo, caldeggia la teoria dell’equivoco garantendo che lui – che di leggi forcaiole ne ha licenziate un pacco e una sporta – è un manettaro doc che non può essere sospettato di collusione.

Ma poi cambia linea. Allora va in Parlamento e lì, finalmente non parlando a braccio ma leggendo quello che vivaddio gli hanno scritto i funzionari del ministero, spiega l’ovvio: la decisione è politica e la politica non ne deve renderne conto ai Pm o alle Procure. Lo dice perché glielo spiegano e glielo scrivono, ma non lo pensa, visto che negli stessi minuti proclama urbi et orbi che farà una legge ad personam per riportare in cella quelli che alcuni giudici hanno liberato in tempi di Covid poiché gravemente malati. Cioè fa quello che aveva fatto nel 1991 proprio Andreotti assieme a Martelli – che infatti se ne gloria e glielo suggerisce in diretta – e che all’epoca fece venire la pelle d’oca a tutti quelli che conoscono la separazione dei poteri. Insomma, per rimontare la china fa quello che molti procuratori pretendono che faccia, come al solito, così come aveva appena finito di fare anche prima della trasmissione imponendo che per decidere una istanza magari fondata sull’urgenza i magistrati di sorveglianza attendano giorni e giorni il parere delle procure Antimafia.

Ora, visto che questa è la storia, mentre si comprende il compiacimento assai poco cristiano di chi gongola nell’assistere allo spettacolo degli adoratori del sospetto vittime della loro stessa perversione – scena non così originale come dimostra la storia della ghigliottina di cui sopra – davvero non si comprende perché uno dotato di buon senso e di dignità dovrebbe, anche solo per un giorno, smettere di chiedere le dimissioni di questo ministro. Certo, il rischio di essere accostati a quelli come Salvini e la Meloni, che lo sostengono con argomenti che ti fanno venire voglia di scappare alle Tonga, per quanto sono intrisi della stessa logica forcaiola, è alto; ma far diventare Bonafede, anche suo malgrado, un campione di indipendenza della politica non è uno sbaglio: è un imbroglio.

Un imbroglio che non a caso fa il Pd che anche in questa vicenda non ha perso l’occasione di trattare le cose di giustizia con doppie verità. E non si dica che così si finisce dalle parti di Di Matteo, che è uno sbaglio ancora più grosso: basta chiarire che le dimissioni le dovrebbe dare pure lui ma dal Csm. Un brutto spettacolo, ovunque lo si guardi, viene quasi la voglia di affacciarsi alla finestra e gridare come Peter Finch, quello vero, “sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più”. Ma è solo il pensiero di un momento: il demagogo lasciamolo fare al Giletti di turno.