Nazionalizzazioni e aiuti post-covid
Decreto maggio, Conte prova a meditare ma si gioca il futuro
Il decreto Maggio slitta, se va bene, al fine settimana. Palazzo Chigi non esclude di arrivare anche alla prossima. «Questa volta è vietato sbagliare, meglio prendere tutto il tempo necessario», filtra dalle numerose riunioni con le categorie produttive – ieri anche Confindustria – e le parti sociali che una dopo l’altra prendono posto ai tavoli di palazzo Chigi per esaminare una manovra che da sola vale 55 miliardi. La salvezza dell’Italia dalla bancarotta passa dalle decisioni contenute in questo decreto.
Il premier Conte, che fin qui ha mostrato sangue freddo e indubbie doti di mediazione, guida una maggioranza che, seppure di coalizione, sembra un ring dove tutti sono contro tutti e pochi stanno con qualcuno. In uno scenario pieno di paradossi, il più evidente è che la principale assicurazione sulla durata del suo incarico è proprio la mancanza di alternative a se stesso. I chiarimenti fatti scivolare giù dal Colle più alto in queste ore sembrano suggerire che non esiste alternativa al Conte 2. Che l’ipotesi di un governo di unità nazionale con “tutti dentro” è al momento la più residuale mentre, nonostante siamo in pendenza di referendum che andrà a ridimensionare il numero dei parlamentari, nulla osta a che si vada a votare. E la palla torna al Parlamento: chi si assume la responsabilità di fermare il Paese per due mesi, il tempo di indire elezioni, fare elezioni, formare il nuovo governo e metterlo in condizioni di operare? Uno scenario che fa tremare i polsi.
E allora tra i deputati che si trascinano tra mascherine, guanti e presenze contigentate tra l’aula e il cortile di Montecitorio, sembra prevalere la consapevolezza di “dover andare avanti cercando continui compromessi che non snaturano i principi di una parte e dell’altra”. In questo momento chi è più in difficoltà è il Movimento 5 Stelle. Il nodo regolarizzazioni dei lavoratori stranieri in agricoltura è solo l’ultima sfida. Teresa Bellanova, ministro dell’Agricoltura e capodelegazione di Italia viva, ne fa da settimane una questione fondamentale: manca mano d’opera nei campi per procedere con i raccolti, quintali di frutta e verdura rischiano di finire al macero con grave danno per la filiera agroalimentare. Ieri mattina le associazioni di categoria, da Coldiretti a Confagricoltura, hanno dato il quadro della situazione: «Nei campi ci sono più cinghiali che braccianti…».
Serve mano d’opera, con urgenza, almeno 400mila lavoratori stranieri che ogni anno vengono impiegati nell’agricoltura. La soluzione per Italia viva può essere solo una: regolarizzare con permessi di soggiorno di sei mesi i braccianti irregolari che sono nel paese. È anche una questione di legalità e sicurezza. Una sanatoria, a tempo, «un po’ come fece Maroni ministro dell’Interno nel 2011». Il Pd è d’accordo, in tutte le sue anime, da Orlando a Delrio passando per Franceschini. I 5 Stelle si sono messi contro. Anzi, sono divisi. Con qualche imbarazzo. Conte ha continui colloqui con Bellanova, il ministro dell’Interno Lamorgese e la ministra del Lavoro Catalfo, entrambi favorevoli. Un accordo sembrava essere stato trovato martedì sera: 400mila permessi invece di 600 mila, durata sei mesi. Ma il capo politico Vito Crimi ha parlato per bocca del mai dimesso capo politico Luigi di Maio e ha detto no. Il presidente della Camera Roberto Fico è in pressing. Bellanova l’ha messa così: «O le regolarizzazioni o questo governo non fa più per me».
In serata, ieri, le quotazioni davano per quasi conclusa una mediazione su un numero di permessi più ridotto. «Tra i 250 e i 300mila», hanno spiegato fonti del Viminale. «È necessario regolarizzarne almeno una parte», è la conclusione cui è arrivato lo stesso Conte nei vari colloqui. Il premier ha sminato come può. «I ministri di Italia Viva Bellanova e Bonetti, come pure il deputato Marattin stanno offrendo utili contributi al fine di definire un programma di interventi che non si limitino a rimediare agli effetti negativi dell’epidemia ma che pongano le basi per una pronta ripresa del tessuto produttivo», ha detto il premier cercando di chiudere una volta per tutte il tema “dell’ostilità nei confronti di un partito di maggioranza”. Cioè, Italia viva.
Palazzo Chigi prova a mettere da parte i motivi di tensione: «Stiamo decidendo come investire 55 miliardi, è normale che ci siano punti di vista diversi». Che però sono tanti e di sostanza. I 5 Stelle credono in una stagione di statalizzazione delle imprese, schema a cui Iv per prima, il Pd da un paio di settimane con il segretario Zingaretti in pressing nelle ultime ore (“devono arrivare i soldi, è urgente semplificare”) e lo stesso Conte sono contrari. Il rischio è anche di dare soldi ad aziende decotte. I soldi devono invece servire per far ripartire l’economia, il lavoro e la capacità di acquisto interna di un Paese che dovrà fare a meno del turismo (un terzo del Pil) per almeno un anno e mezzo.
L’esperienza Sace, voluta da Di Maio, per dare le garanzie al decreto liquidità, quello del bazooka, è stata sin qui fallimentare. Da non ripetere. Lo scontro è tra l’assistenzialismo, stella del Movimento, che vorrebbe ripetere con il Reddito di emergenza l’esperienza del Reddito di cittadinanza; e l’ala produttivista, chi crede nell’impresa privata che crea ricchezza, crescita e lavoro. Al netto, ovviamente, dei necessari ammortizzatori. Nelle ultime ore il segretario del Pd sembra spingere più verso questa parte. Oltre che sul fatto che «i soldi devono arrivare subito a imprese e famiglie. Basti impicci burocratici e ritardi». Le sfumature, anche al Nazareno, sono molte.
Non sfugge che tutto ciò accade mentre il Movimento è più debole. Ministri chiave come Bonafede (Giustizia), Pisano (Innovazione), Azzolina (Scuola) e Spadafora stanno inciampando nei meandri della Fase 2. Bonafede, indebolito dall’affaire Di Matteo e scarcerazione di 376 boss per motivi di salute o di sicurezza legati al virus in carcere, ieri si è difeso in aula alla Camera proponendo “un nuovo decreto per riportare in carcere i boss appena scarcerati”. Qualcosa non ha funzionato dunque al ministero. È necessario mettere una pezza. E questo scredita l’azione del ministro al di là di come siano andate le cose con la mancata nomina del pm antimafia Di Matteo alla guida del Dap. La ministra Azzolina risponde ogni settimana a una decina di interrogazioni parlamentari sulla gestione della scuola. La proposta di riprendere a settembre con gli alunni in parte in classe e in parte collegati da casa ha scatenato genitori e insegnanti. «Brava a chiudere, senza un progetto per il dopo», è l’accusa più gentile che le viene rivolta. La ministra Pisano è alle prese con la App di tracciamento del Covid: di fronte al Copasir ha spiegato che la app Immuni è stata selezionata dalla nostra intelligence, dal Dis per l’esattezza.
Peccato che il generale Vecchione, alla guida del Dis, abbia detto il contrario pochi giorni fa. Non è una differenza da poco visto che a quella App 60 milioni di italiani dovrebbero consegnare le loro identità. Spadafora, colonna dell’anima governista del Movimento, frena sulla ripresa delle attività sportive, anche di base, amatoriali e anche all’aperto. Uno zelo eccessivo per i tanti operatori del settore che non lavorano da due mesi e non riescono ad avere prospettive per la Fase 2. Spadafora si sta, soprattutto, inimicando il mondo del calcio che non è solo gioco ma è anche tanti soldi, qualche miliardo di fatturato al giorno che stanno andando in fumo. Insieme ai posti di lavoro. La debolezza dei ministri 5 Stelle può essere utile al premier. Per lavorare meglio sulla strada del compromesso.
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