Diego Armando Maradona Jr il figlio di: inevitabilmente, e per tutta una vita così, per gli altri soprattutto. Che della vita del padre, il Pibe de Oro, ha preso e subìto lo slancio, il rinculo, le derapate di una vida tombola, straordinaria e spericolata, l’esistenza sulle montagne russe del più grande calciatore di tutti i tempi, un uomo nato povero e ricco di un talento sproporzionato per un essere umano solo. Quel peso – quello di essere il figlio di una leggenda, un nome diventato lemma e sinonimo, icona pop e bandiera dei Sud del mondo applicata al pallone – Diego Jr lo ha portato e lo porta anche lui addosso, almeno in parte: lo porta da quel servizio al telegiornale con la madre Cristiana Sinagra che lo presentava al mondo dal letto in una stanza di un ospedale di Napoli come “il figlio di Diego Armando Maradona”.

Era il settembre del 1986: el Pibe de Oro era appena diventato campione del mondo con l’Argentina quando nasceva il suo primo figlio. Prima dei successi con il Napoli, prima ancora del riconoscimento arrivato nel 2007, molto tempo prima della tragica morte un anno fa: quel 25 novembre 2020 che ha sconvolto Napoli e paralizzato l’Argentina e riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo.

Chissà quante volte Diego Jr non si sarà sentito libero di essere scontroso, con la luna storta, non sempre disponibile per tutti i curiosi e per tutti gli invadenti altrimenti: quello è un montato, chi si crede di essere, se la tira solo perché è il figlio di. E per gli stessi sarà stato sempre per quello che ha giocato nelle giovanili del Napoli, che ha partecipato al reality Campioni, al Ballando con le Stelle argentino e che oggi allena perfino. Chissà quante ragazze si saranno avvicinate. Quizás. Maradona Jr tiene ben presente che per molti, forse quasi tutti, sarà sempre il figlio di: è comunque pienamente cosciente di chi è lui, da dove viene, quello che vuole fare, le persone che contano intorno e lontano.

Da quest’anno allena il Napoli United, ex Afro Napoli, la squadra che nei fine settimana incendia il Vallefuoco di Mugnano. Domani arriva la Puteolana, prima della classe a 5 punti di distanza. L’obiettivo resta quello di vincere il girone B, Eccellenza. Dicono che a centinaia vorrebbero arrivare in Italia, allo United, dall’Argentina per farsi allenare da lui: sempre per lo stesso motivo, un nome marchiato a fuoco. Diego Jr, 35 anni e due figli, Diego Matias e India Nicole avuti con la moglie Nunzia Pennino, commenta lo sport per Radio Crc e allena, allena con le sue idee chiare: un calcio pulito e moderno, a uscire da dietro palla a terra, buttarla mai, 4 3 1 2 con il trequartista, il numero 10: non poteva essere altrimenti.

Giovedì 25 novembre sarà un anno dalla morte di suo padre.

È stato un anno molto difficile. Stavo male, avevo il covid ed ero ricoverato all’Ospedale Cotugno. Non sono potuto essere lì. Non potemmo andare neanche al compleanno dei 60 anni (il 30 ottobre, ndr). E dopo due giorni risultammo positivi al covid tutti: io, mia moglie e i bambini. Parlai con lui il giorno dopo l’operazione che fece al cervello a inizio novembre, in videochiamata. Stava bene, fece un paio di battute, ma poi io mi sono aggravato e non l’ho più sentito. E non sono ancora riuscito ad andare in Argentina.

Come aveva vissuto suo padre la pandemia?

Era stata durissima per lui. Aveva paura, per via della sua storia clinica, e perché a lui le cose che non gli lasciavano libertà lo destabilizzavano: doveva fare le cose che diceva lui e basta.

Qual è il primo ricordo che ha di suo padre?

Non ricordo un momento in particolare. Mia madre mi ha sempre raccontato la verità, è stato tutto molto naturale. Ricordo bene i mondiali del 1994 negli USA: la squalifica per l’efedrina, un’infamità. Ci rimasi malissimo. Fu atroce. Ho avuto comunque un’infanzia felice. La famiglia di mia madre è stata meravigliosa. Mio nonno è speciale: lui mi ha cresciuto, mi portava all’Edenlandia, allo Zoo, allo stadio. È stato mio padre, in sostanza, senza nulla togliere al mio vero padre. L’adolescenza è stata un po’ più difficile, perché le sofferenze sono amplificate e perché è un momento in cui ti stai costruendo come persona, ma tutto sommato è andata bene.

Com’è stato crescere a Napoli?

La cosa migliore che mi potesse succedere nella vita. Sento un grande senso di appartenenza alla città e credo che i suoi pregi superino di gran lunga i suoi difetti.

E com’è stato crescere come il “figlio di Maradona”?

Per la gente posso essere il “figlio di” ma io sono sempre stato Diego. Quando mi rendo conto che una persona si avvicina solo perché sono “il figlio di” lo allontano automaticamente. Ma non perché non lo sono: lo sono con orgoglio, però le persone ti devono apprezzare per quello che sei.

La prima volta che ha incontrato suo padre è stato a Fiuggi: su un campo di golf dove è riuscito a entrare con uno stratagemma.

Fu gentile. Mi disse delle belle cose ma non ci fu un seguito. Lui in quel momento non era pronto, non stava bene, per la droga. La seconda volta invece, quando ci siamo visti in Argentina, ho trovato un uomo diverso, un uomo cambiato che già non faceva più uso di stupefacenti. La maggior parte della giornata lucido.

“Eri l’idolo di mio figlio”, gli disse un poliziotto quando lo arrestarono in Argentina nel 1991. “Coglione, l’idolo di tuo figlio dovevi essere tu”, rispose Maradona.

È il mio idolo calcistico, come di tutti noi napoletani e di tutti gli amanti del calcio. Poi qualche volta è partito anche a me il cervello per tutta la situazione. Ma sono sempre stato consapevole che se l’avessi cercato l’avrei trovato, prima o poi, e che l’avrei dovuto perdonare, altrimenti non aveva senso.

Cosa facevate insieme?

Guardavamo tanto calcio. A dispetto di quello che dicono gli piaceva stare in casa, anche perché non aveva tanta scelta: quando usciva lo assediavano. Non poteva scendere a bere un caffè o a comprare un giornale. Non era una persona qualunque, era l’”eletto” e quella celebrità è stata il prezzo che ha dovuto pagare. Insieme guardavamo calcio, bevevamo mate. Sono stato bene con papà.

I suoi figli l’hanno conosciuto?

Diego Matias se lo ricorda, è stato battezzato da papà che invece non ha visto India, per la pandemia. Diego quando vede per strada una macchina con l’adesivo indica il nonno: “Papà, c’è il nonno!”, dice. E lo associa sempre al calcio naturalmente. Ma spero che non giochi a calcio: una parte dentro di me lo desidera perché ogni padre spera di condividere una passione con i figli. Dall’altra parte però questo non è più lo sport che amavo io quando ero bambino: gli osservatori guardano più quanto sei strutturato fisicamente e non se sai giocare a calcio; i genitori spesso sono insopportabili. E spero che mio figlio non debba sentirsi tutte le cattiverie che mi sono sorbito io. Mio nonno veniva a vedere le partite e non ha mai detto una parola, con tutta la merda che mi hanno buttato addosso negli anni. Si arrabbia più adesso che ha 80 anni e faccio l’allenatore.

Ha imparato a sopportare le cattiverie che le hanno detto?

Quelle non finiscono mai, e non solo per me. Poi un raccomandato non credo che se ne stia sei anni senza allenare, con il patentino, e che riparta dall’Eccellenza. Mi ci sono abituato alle cattiverie.

Com’è stato giocare nelle giovanili del Napoli?

Ho capito quanto ci schifa tutta l’Italia, da Nord al Sud. Ovunque andavamo erano sputi e ombrellate. Però è stato bellissimo vestire la maglia del Napoli, meraviglioso, forse gli anni più belli della mia vita. Sbaglia chi dice che la maglia del Napoli ce l’ha cucita addosso: per me è cucita dentro, è una specie di anima.

Qual è il suo rapporto con la società, la SSC Napoli?

Un buon rapporto ma niente di particolare. Voglio un gran bene a Edo (Edoardo de Laurentiis, figlio del Presidente Aurelio de Laurentiis e vicepresidente, ndr), un ragazzo per bene. Gli faccio vincere le partitelle di calcetto il mercoledì.

La maglia omaggio del Napoli, con il volto di suo padre, è stata realizzata in virtù di un contratto con il manager Stefano Ceci: “Diego Maradona mi ha conferito una licenza per 15 anni più altri 10 post mortem – ha detto a Canale 21 – e il 50% di questi diritti andrà agli eredi. Il Napoli ha pagato per la maglia omaggio”. 

Non ho querelato il Napoli, e non tutti l’hanno capito. Noi successori abbiamo una causa contro Stefano Ceci: per noi questo contratto non c’è più. Non so per quale motivo il Napoli abbia dato retta a questa persona. Si sono mossi male. Su due aspetti soprattutto.

Quali?  

Hanno fatto una maglia con la faccia di nostro padre e non ne hanno mandata neanche una né a me né alle mie sorelle. E non siamo stati coinvolti in nulla: non stiamo presi in considerazione nemmeno per un parere. E poi la maglia omaggio si gioca e si conserva: queste maglie sono state vendute, quindi non è un omaggio. Per una maglia omaggio non c’è bisogno di un contratto. Se mi prendono in giro mi dà fastidio, anche perché quello sulla maglia è mio padre. Detto ciò, se nel caso un giorno gli altri successori dovessero scegliere di agire contro il Napoli io rinuncio al mio compenso: il Napoli deve comprare i giocatori non deve mica dare i soldi a me.

Stefano Ceci ha invitato tutti gli eredi alla partita con la Lazio, il 28 novembre, allo Stadio Maradona per l’inaugurazione della statua che ha fatto realizzare in onore di suo padre.

Con le magliette si è dimenticato e con la statua si è ricordato? E ci mancherebbe. Comunque non ci andrò, ovviamente.

Sulla morte di suo padre è in corso un’inchiesta in Argentina. 

Ho un’idea, ed è anche un’idea abbastanza strutturata, su quello che è successo. C’è un’inchiesta e non ne posso parlare. In Argentina tra l’altro stanno lavorando molto bene. Noi naturalmente siamo parte lesa. Fosse l’ultima cosa che farò nella vita, devo sapere quello che è successo

Com’è il rapporto con le sue sorelle, gli altri successori?

Ho un buonissimo rapporto con Jana, la vedo frequentemente. Con Gianina e Dalma ogni tanto parliamo, è un rapporto normale, umano. Dalma non l’ho mai vista.

Domani il big match con la Puteolana. Come sta andando la sua prima esperienza sulla panchina di una prima squadra?

La Puteolana è una squadra forte, che ha ambizioni di alta classifica e vuole vincere il campionato. Per noi sarà un bel banco di prova perché veniamo da una brutta sconfitta. A me piacciono queste partite, mi motivano. Ho sempre pensato, anche quando giocavo, che un giorno mi sarebbe toccato questo ruolo. Lo vivo forse con troppa ansia. Il giorno è di 24 ore e io ci penso 26 ore. Quest’anno ho un bel gruppo, un allenatore senza i ragazzi è ben poco.

Cos’è per lei il calcio?

La mia più grande passione, la mia quotidianità. La prima cosa che penso quando mi alzo e l’ultima prima di andare a dormire, appena dopo la mia famiglia. E nessuno me l’ha inculcata questa passione. Anche da piccolo il mio giocattolo preferito è sempre stato il pallone.

Dove vuole arrivare?

Sono appena alla mia prima esperienza, ci vuole tempo. Ma il mio sogno è lo stesso sogno di quando ero bambino, quando sognavo di giocare con la maglia del Napoli allo Stadio San Paolo.

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Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.