Qualcosa che non muore e che non morirà. Diego Armando Maradona e Napoli. Napoli e Maradona. E una ragione in più, rispetto alla solita solfa: il riscatto del Sud, la passione cchiù forte e ‘na catena, un posto a piacere tra il primo e il secondo nelle cose belle con il Vesuvio e le sfogliatelle. Insomma: El Pibe de Oro è stato anche qualcosa di simile all’avvento della modernità nella città sconquassata dei primi anni ottanta. Tutta un’altra storia e dimensione, rispetto al cliché. Più o meno così la mette lo scrittore napoletano Massimiliano Virgilio.

Da una settimana – da quando il campione argentino che con gli azzurri ha vinto due Scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e una Coppa UEFA, è morto, all’improvviso a 60 anni, in un appartamento nella provincia di Buenos Aires, in una solitudine sconcertante (a quanto emerge nelle ultime ore) mentre il giorno dopo la notizia sarebbe stata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo – da una settimana, dunque, lo scrittore napoletano (Le Creature il suo ultimo romanzo, 2020, Rizzoli) è inconsolabile. Quello che ha significato nella sua educazione sentimentale e sportiva El Diez lo scriverà eventualmente lui stesso – che è quello che fa nella vita. C’è una ragione in più intanto per parlare della città porosa, popolare, schifiltosa, accogliente, ruffiana e pericolosa e del suo per sempre eroe giovane e bello oggi, ma anche qualcos’altro ai tempi belli di una volta.

Maradona il vendicatore, l’eroe del riscatto contro il Nord, l’eroe dei poveri. Quanto è vera e quanto è cliché questa narrazione?

“Sicuramente Maradona ha rappresentato un riscatto per la città, ma questa dimensione del rivincita da una condizione di grave inferiorità è stata esagerata. Quindi sì, c’è anche del cliché tipico di chi guarda a Napoli con occhio coloniale, con sguardo di superiorità. Un atteggiamento che gli stessi napoletani spesso assumono su sé stessi”.

Quale può essere quindi una lettura meno stereotipata e più utile?

“Quello della metropoli: una metropoli che prima non aveva coscienza di sé”.

Ci spieghi.

“Quando Maradona è arrivato, Napoli era la città del post-terremoto, del colera di poco più di dieci anni prima, della criminalità che faceva il salto di qualità. Ma era anche una città vivissima: c’è Lucio D’Amelio e da poco è passato Andy Warhol, sono gli anni della musica di Sergio Bruni e di Pino Daniele e di tutto il neapolitan power; di una scena letteraria florida. Non una Napoli milionaria, ma ricchissima sì, vivace. È però la sola presenza di Maradona ad accendere un faro: il mondo guarda Napoli. Per la prima volta, con intensità, come non succede da tempo. Come non succedeva, forse, da quando era una capitale borbonica”.

Un taumaturgo in pratica.

“Improvvisamente Napoli ha preso consapevolezza del suo essere metropoli. Ed è tornata a essere la Capitale perduta che sempre si ripete di essere”.

©Delmati/LapresseArchivio Storicoanni ’80sportcalcioDiego Armando Maradonanella foto: presentazione del calciatore del Napoli Diego Armando Maradona

Non è però tutto rose e fiori: Napoli-Pisa, maggio 1989, i fischi del San Paolo. Da dove vengono?

“La relazione con la città è sempre stata riportata nei termini dell’amore infinito e incontrastato. In realtà gli stessi napoletani, con le voci che giravano, il segreto di Pulcinella della cocaina, e soprattutto dopo i Mondiali del 1990, hanno cominciato a sentirsi meglio di Maradona dopo qualche tempo. Lo hanno giudicato: e quei fischi lo hanno raccontato. Hanno rappresentato un’incrinatura nella narrazione maggioritaria di quel rapporto”.

Il campione è stato quindi più divisivo di quello che si è detto in questi giorni?

“Maradona è sempre stato indigesto alla borghesia. A quella italiana soprattutto, e a quella napoletana che giocava e gioca ancora a scimmiottare la borghesia di altri luoghi. Orribile. Questo perché Maradona era un impresentabile, o così veniva percepito: con le sue origini, le sue camicie, i suoi capelli, la droga, la criminalità, le sue donne; perciò molti sentono il bisogno di santificarlo, di beatificarlo come da morale cattolica. È stato invece il primo grande populista dell’era contemporanea e uno degli ultimi del ventesimo secolo”.

A proposito di retorica: si può parlare di un avanti e di un dopo Maradona?

“Non credo sia un caso che tra la città del post-terremoto e il cosiddetto Rinascimento ci sia stato lui. Napoli ha usato Maradona come hanno fatto tanti altri nella sua vita. Com’è successo nel privato: con il clan, i familiari, i manager, i presunti amici. La metropoli si è servita di questo faro gettato su di lei, su di noi. Ricordiamo che comunque se ne andò da solo. All’aeroporto di Capodichino era solo dopo la squalifica (per doping, nel 1991, dopo la partita con il Bari, ndr)”.

Oltre ai titoli, cosa lascia Maradona a Napoli?

“Una grande eredità tra le mani della città. Culturale e immaginaria. Un tesoro che non va sperperato perché l’ultima e unica possibilità per la città di restare sullo scenario mondiale. Lo abbiamo visto in questi giorni: gli occhi di tutto il mondo su Napoli. Allo stato attuale la città non può vantare niente di lontanamente paragonabile. Né simboli, icone, luoghi della memoria condivisi. Non bisogna farsi sfuggire, da questo punto di vista, l’opportunità di esistere”.

Alla notizia della morte molti hanno parlato di Maradona come di un parente. Napoli è orfana?

“È orfana, sì, ma come si è orfani di un padre o di una madre che ti hanno reso la vita migliore, non peggiore. Quella Napoli, e come abbiamo visto anche quella di oggi, è diventata davvero straordinaria ed eccezionale attraverso l’esperienza di una delle più grandi icone del ventesimo secolo. È orfana ma anche cosciente di aver vissuto qualcosa di speciale e indimenticabile, è stato meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati”.

Antonio Lamorte

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