La modificazione dei confini tra privato e pubblico, di cui si era avvertita la portata rivoluzionaria nella dissidenza giovanile del Sessantotto, e i cambiamenti prodotti dalla globalizzazione, non potevano che aprire la strada a una politica altalenante tra innovazione e ritorno al passato, e favorire l’economia capitalista nel vorace inglobamento di tutte le risorse umane dentro logiche produttive e consumistiche. Ricondurre – come fa Ernesto Galli della Loggia nell’articolo pubblicato sul Corriere della sera (15/11/19) – un mutamento complesso, e contraddittorio nei suoi effetti, alla “modernità”, sostenuta dalla parte più colta e benestante del Paese, e percepita invece come ostile e distruttiva dalle classi svantaggiate, non è solo una semplificazione, ma rischia di non far capire perché la comparsa di un nazionalismo di natura “difensiva” e una nostalgica idea di Patria attraversino oggi gli schieramenti politici più diversi, come dimostra l’intervista a Zingaretti su Repubblica (19/11/19 ). Non c’è dubbio che le “novità” spaventino, soprattutto quando toccano condizioni di sopravvivenza già precarie e modi di sentire, vivere, fondati sui valori tradizionali, certezze ereditate spesso inconsapevolmente dalla storia che abbiamo alle spalle. Ma le inquietudini che vengono sia dalla perdita di confini tra Stati, popoli e culture, che dalla crisi della famiglia, dall’allentamento di vincoli, dipendenze, gerarchie di potere tra i sessi e le generazioni considerati finora “naturali”, vanno molto oltre gli interessi di una classe e dell’altra. Le ragioni che spingono a riesumare forme comunitarie così arcaiche, già note per la loro distruttività e perciò tutt’altro che garanzia di sicurezza e protezione, non possono che essere trasversali alla società nel suo insieme e affondare le loro radici nell’attualità come in una lontana “preistoria” degli umani.

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Al presente appartengono sicuramente il conformismo di massa e l’atomizzazione, individui sempre più isolati e convinti di dover contare su se stessi, nel lavoro e nella vita affettiva. Già nel resoconto del Censis del 2001 si leggeva: «Di fronte a eventi di forte drammaticità ci resta soltanto la nostra “nuda vita” e la nostra individuale anima contro l’anima mundi che ci spaventa». Difficile dire quanto il “vivere soli” sia una scelta, il tentativo di riconoscere bisogni, fragilità, interdipendenza, senza cadere in vincoli di necessità – come sono stati quelli in famiglia -, quanto il prevalere di logiche di mercato che spingono a farsi “imprenditori di se stessi”. In ogni caso si tratta di forme nuove di convivenza che mettono in crisi ruoli, identità, abitudini, e che finiscono spesso per alimentare spinte contrarie, conservative. A un passato remoto, ma non per questo meno incisivo come tutte le “potenze interne” che premono per trovare una via d’uscita, fa invece riferimento la confusione, tornata di tragica attualità, tra lo straniero e il nemico. Colpisce, nell’articolo di Galli della Loggia, che il “nuovo” nazionalismo, visto come “rifugio dal mondo”, non sia associato al fenomeno più evidente, divenuto non a caso strumento facile di propaganda per le destre populiste: l’intensificarsi dei flussi migratori. Al di là dell’uso che ne ha fatto la politica salviniana per rinsaldare valori e appartenenze tradizionali, come la famiglia, la religione, la patria, certezze reali o immaginarie legate alla condivisione di una lingua, di una storia, lo straniero, soprattutto se di pelle diversa, viene identificato dal cittadino qualunque come un pericolo, l’immigrato come portatore di disordine, delinquenza, malattia e morte. Razzismo, omofobia, misoginia, prima che essere il bacino a cui attengono politiche autoritarie e di stampo fascista, sono il sedimento di barbarie, ignoranza, pregiudizi, che le viscere della storia portano oggi come perversa “normalità” sulla scena pubblica. Ignorarle, come ha fatto la sinistra, anche quando a riscoprirle e modificarle erano i movimenti ad essa più vicini – penso soprattutto al femminismo -, ha impedito di vedere che le migrazioni in massa verso l’Europa avrebbero creato allarme, non importa quanto reale o agitato ad arte, paura di essere invasi, danneggiati, espropriati.

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Altrettanto prevedibili avrebbero potuto essere gli arroccamenti difensivi, ricerca di capri espiatori, un “noi” visto come corpo omogeneo, conosciuto, benevolo, rassicurante, e un “loro” descritto solo in negativo: non italiani, non europei, non democratici, non persone.  Di fronte alla contemporanea comparsa di muri contro i migranti, chiusure identitarie e nostalgie nazionaliste, viene in mente quanto già scriveva Elvio Fachinelli nell’articolo “Gruppo chiuso o gruppo aperto” del febbraio 1968, un’analisi tristemente profetica del rapido passaggio della breve intensa stagione di “accomunamento” del Sessantotto al settarismo dei gruppi extraparlamentari: «Storicamente lo straniero, l’uomo che spunta sconosciuto all’orizzonte, è stato, ed è, più spesso nemico che amico. Di qui il riflesso di chiusura del gruppo nei suoi confronti, che è tanto più forte, quanto più il gruppo è internamente debole, incerto, diviso, e che riesce a dargli momentaneamente una sua unità e una sua forza». Ma c’è un altro aspetto che Galli della Loggia tocca solo marginalmente, quando parla di “novità culturali” inquietanti, e cioè il cambiamento che sta avvenendo nel rapporto tra i sessi: la messa in discussione dei generi, della famiglia fondata sull’eterosessimo normativo, il riconoscimento anche giuridico di altre forme di intimità. La libertà delle donne, tenuto conto della violenza che sta scatenando da parte maschile – femminicidi, attacchi a diritto acquisiti, come il divorzio, l’aborto, la riforma del diritto di famiglia – non si può dire che sia percepita come meno pericolosa della crisi che attraversa il mondo del lavoro. Quel corpo femminile che l’uomo ha visto come “straniero” alla sua nascita, e contro cui ha alzato barriere a difesa della sua “differenza”, superiorità e potere, nel momento in cui si sottrae al controllo garantito dai ruoli di moglie e madre, gli viene incontro di nuovo sconosciuto e minaccioso. Non c’è da meravigliarsi perciò se nell’ondata di restaurazione che sta attraversando il nostro Paese si mescolano patria, nazione, famiglia e madri. La nascita della nazione è nascita di una genealogia patriarcale, ma è anche richiamo a una “coesione organica” che ha a che fare immaginariamente col corpo materno. È madre-patria, o meglio ancora “matria”: pensiero d’uomo in un corpo femminile, riportato al suo ruolo tradizionale. Scrive George L. Mosse: «La donna personificava, nella sua veste di simbolo nazionale, la rispettabilità e anche quando le fu affidato il compito di difendere e proteggere il suo popolo, fu comunque integrata nella su parte tradizionale di moglie e madre, di custode della tradizione che manteneva desta nell’attivo mondo degli uomini la nostalgia per il calore della casa».

Lea Melandri

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