Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire pensando a quel che è avvenuto: da Draghi e Mattarella a…Draghi e Mattarella. Potevano cambiare entrambe le personalità per le due cariche, o solo una: tutto è rimasto come prima. Sarebbe tuttavia un grave errore pensare in questi termini. La rielezione di Mattarella era tutt’altro che peregrina. Importante avere una figura come la sua anche per i prossimi anni ma il tema vero era il trasloco o meno di Draghi. La sua permanenza a Chigi anche nei prossimi mesi ha tutt’altro che congelato il quadro politico. Lo ha anzi scongelato, ne ha accelerato le convulsioni.

Con Draghi al Quirinale si poteva immaginare di tornare al vecchio schema bipolare e poi, in caso di fallimento, avrebbe garantito il Presidente. Per diverse ragioni non potrà funzionare così. E Draghi riveste una carica di indirizzo politico. Nella battaglia del Quirinale Salvini ha scelto alla fine la maggioranza di governo. La politica sembra avere una dimensione matematica. Fatta la scelta ora il Capitano parla “fronte repubblicano”. Meloni è più isolata che mai nel suo purismo. I Cinque Stelle sono ad un bivio dove l’atteggiamento davanti al governo è il vero oggetto del contendere. A sinistra si oscilla tra la ricerca di quello che resta del “campo largo” e la richiesta di riforme istituzionali di notevole impatto, a partire dalla legge elettorale e alla lotta al trasfughismo parlamentare.

Al centro, infine, siamo solo all’inizio di una serie di tentativi di riaggregazione. Ormai, soprattutto, si comincia a parlare non più sottovoce di condizioni abilitanti per consentire a Draghi di restare al governo anche oltre l’orizzonte della legislatura (se non lo attende un prestigioso incarico internazionale). Uno scenario fantascientifico che però qualche mese fa già prefiguravamo. Nessuno ha la credibilità di Draghi e il tandem con Mattarella funziona alla perfezione anche in campo internazionale: un “dream team”, come tale salutato dalla stampa internazionale.
Tutto viene in discussione. Sia le scomposizioni e ricomposizioni del quadro politico che le riforme istituzionali toccano da vicino la Campania. L’ormai ineludibile esigenza di tornare ai partiti strutturati, una competizione politica attorno alle idee e non a personalismi, il ristabilimento di un legame di vicinanza tra la rappresentanza politica ed il territorio: si è aperto un cantiere per ridare centralità ai partiti. Finalmente lo chiedono tutti. Non se ne può più di partigianeria, di cui i partiti sono e dovrebbero essere il contrario. Dovrebbero avere una visione di parte dell’interesse generale e sono veicoli di costruzione della politica nazionale.

La dimensione dell’interesse nazionale – oggi viene chiamata stabilità – costituisce ormai un polo di attrazione per tutti. Il Presidente del Consiglio dice che occorre fare ciò che è necessario, niente di più e di meno. Le regioni meridionali sono attraversate da faide di ceto politico, sempre più lontano dalla società, e mirante ad autoperpetuarsi senza ed anzi a danno dei partiti. In Campania la destra è attualmente solo un sentimento, il centro un elenco di civiche, e la sinistra, a parte un De Luca in evidente crisi di immagine, non si capisce cosa sia: in ogni caso non conta nulla a livello nazionale. È la Campania che non conta nulla, da troppi anni. Perfino i Cinque Stelle, che hanno qui la loro roccaforte elettorale e un paio di leader ormai di riconosciuto peso non riescono a elaborare un contributo specificamente “campano”, e non genericamente assistenzialista.

Diciamo la verità: la politica in Campania non esiste più, sostituita ormai solo dall’amministrazione o dalla gestione del potere. Avere Draghi in ruoli politici a far da attrattore e mettere in cantiere nuove forme di selezione può certamente aiutare una politica esangue a tornare a parlare di progetti e a coltivare visioni.